Facciamo un giocoCosa avremmo detto se a guidare Mani pulite ci fosse stata una junta e non il pool?

I protagonisti di quell’epopea erano dei signori intabarrati di seta nera, le loro ambizioni erano acclamate dai girotondi e i giornalisti erano embedded. Ma le loro parole d’ordine erano una pericolosa compromissione dello stato di diritto

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Facciamo un gioco. Siamo sempre negli anni ’90 del secolo scorso e siamo sempre in Italia. Solo che a convocare i giornali e le televisioni per contestare un provvedimento legislativo non sono quattro pubblici ministeri in toga, in un Palazzo di giustizia: ma quattro militari, in divisa, nel piazzale di una caserma. Fuori c’è la stessa folla, ma appunto non sta sotto al balcone della procura: sta oltre i cancelli di quella caserma, e urla a quei militari impettiti di far sognare il popolo onesto mettendo in prigione gli indagati finché non confessano. I giornalisti sono sempre embedded, ma in fureria anziché in cancelleria, e da lì quotidianamente riportano le gesta della junta che ripulisce la società di tutto il marciume che la soffoca. Quello ritratto a cavallo in una fotografia pubblicata dal magazine del primo quotidiano d’Italia non è un magistrato del cosiddetto Pool che coordina la cosiddetta inchiesta Mani Pulite, ma un colonnello, lo stesso che non davanti a un Tribunale, ma ancora davanti a una caserma, dice che se il presidente della Repubblica lo chiama per riporre in riga l’Italia corrotta lui si mette a disposizione.

Che cosa si sarebbe detto a proposito della vicenda in quello scenario trasfigurato? Che cosa si sarebbe detto se a rendersi protagonisti di quell’epopea non fossero stati dei signori intabarrati di seta nera, ma un manipolo di soldati in mimetica, con pistola alla cintola e con i girotondi che ne acclamavano le ambizioni? Si sarebbe detto probabilmente, e probabilmente con appropriatezza, che quella era una vicenda di pericolosa compromissione dello Stato di diritto, e chi avesse denunciato il clima eversivo di quel periodo non sarebbe passato per una specie di bestemmiatore.

Non fu mai in discussione, almeno da parte degli osservatori spassionati e giudiziosi, il lavoro per così dire curricolare di quei magistrati, insomma il fatto che i loro provvedimenti fossero buoni o cattivi, corretti o sbagliati, legittimi o no. Fu in discussione, almeno da parte dei pochi che lo denunciarono, il pubblico straripamento di quel corso giudiziario, il fatto che esso aberrasse in una pretesa moraleggiante e di riordino sociale che non compete alla magistratura e che alla magistratura non può essere consentito di esercitare.

Dire, come disse uno di quei pubblici accusatori, che il compito del magistrato è di «far rispettare la legge», significa fraintendere la funzione del potere giurisdizionale e, ciò che è peggio, significa istigare il pubblico a quel fraintendimento: perché a far rispettare la legge è comandato il poliziotto, o appunto il militare con funzioni di polizia, non il magistrato, il quale è chiamato al compito del tutto diverso di applicarla.

Disporsi al governo del Paese, come fece qualcuno, dopo aver diffidato i partiti politici dal candidare gente con gli scheletri negli armadi, significa credere che il potere di arrestare le persone costituisca un’arma diversissima, mentre è solo succedanea, rispetto al fucile imbracciato dal militare che reclama investitura civile.

E attenzione. Il fatto che i protagonisti di quella vicenda, e i tanti che ne celebravano il comportamento indebito, potessero essere in buona fede, se possibile aggraverebbe la loro responsabilità. Perché la loro presunzione di operare a fin di bene avrebbe reso più facile commettere il male che hanno fatto al Paese.

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