Moda e tracciabilità La sfida delle maison per risultare sostenibili e credibili allo stesso tempo

Un controllo capillare sulla filiera produttiva è l’unico modo per proteggere l’immagine del fashion system e la vita del nostro pianeta

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Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.

Da dove vengono i vestiti che compriamo? Chi li ha realizzati? Chi ha fornito la materia prima? Chi li ha confezionati? E quali vite hanno vissuto prima di arrivare a noi? E perché avere una risposta a queste domande è diventato così importante? Si chiama tracciabilità, la nuova frontiera del percorso verso una sostenibilità che non sia solo di facciata, ed è la nuova “ossessione” dei grandi conglomerati del lusso.

Un passaporto digitale, un modo per presentarsi al proprio pubblico, mostrando da subito di avere tutte le carte in regola per entrare nei nostri armadi, e soprattutto rimanerci a lungo. La tracciabilità è un concetto complesso molto meno afferrabile ed ecumenico di “sostenibilità”, che infatti ormai viene usato a sproposito anche per la collezione di magliette in cotone organico. E però la tracciabilità, ad oggi, è il processo che permetterà a tutti i brand del lusso di mettere in pratica alcuni dei precetti necessari per validarsi come “alleati” di quanti lottano per un maggior rispetto dell’ambiente da parte del sistema della moda, senza tradire il proprio DNA, anzi, sublimandolo. Secondo un articolo di Bof del 2022, “The Traceability Tech aiming to unlock a more sustainable industry”, realizzato con i dati forniti dall’agenzia di consulenza McKinsey & Company, il percorso intrapreso dai brand è un cammino obbligato dal quale non si può tornare indietro. Secondo i dati più del cinquanta percento dei dirigenti e top manager delle aziende di moda dicono che la tracciabilità sarà una delle cinque priorità per ridurre le emissioni della catena di produzione.

Creare un sistema centralizzato che raccolga dati, e che fornisca delle metriche specifiche per calcolare i vantaggi ambientali è in fondo essenziale per fare dei progressi reali, considerato che il settore moda è responsabile del dieci percento delle emissioni di gas serra. Investire quindi nelle tecnologie emergenti con start up innovative è fondamentale, anche se purtroppo, parlando della catena di produzione, il problema principale è che i brand, spesso, hanno il controllo solo sui loro fornitori diretti. Questo non esclude che i fornitori incaricati di una parte della manifattura o della raccolta della materia prima, non appaltino a loro volta delle specifiche fasi della produzione a fornitori terzi. Nei casi delle grandi maison, molto è cambiato soprattutto dopo il disastro di Rana Plaza del 2013. In questo edificio a rischio crollo nella Grande Area di Dacca, la capitale del Bangladesh, lavoravano migliaia di persone, sottopagate e sfruttate, costrette a condizioni disumane, a cui veniva impedita una pausa anche solo per andare al bagno, spesso incatenate alle loro macchine da cucire.

Quando l’edificio crollò, il 24 aprile 2013, morirono millecentotrentaquattro persone. In quel palazzo di otto piani si cucivano e producevano i vestiti non solo di alcune note catene di fast fashion, ma anche di alcuni grandi brand occidentali, che in alcuni casi non erano consapevoli che il lavoro commissionato ai loro fornitori diretti e sicuri fosse stato sub-appaltato a realtà molto più ambigue e con una etica del lavoro assolutamente inesistente. Dopo quella tragedia, vennero messi in atto piani più stringenti per avere il controllo della propria catena di produzione, anche nelle sue iterazioni ai terzisti, obbligando anche i fornitori a rendere esplicito l’eventuale sub-appalto, e a selezionare solo enti che rispondano a dei requisiti minimi di affidabilità.

E proprio qui torna in gioco la tracciabilità, fondamentale per costruire un rapporto di fiducia con il consumatore: l’ultimo in ordine cronologico a lanciare un progetto strutturato in merito è stato Loro Piana, il brand fondato in Valsesia nel 1924, da Pietro Loro Piana, e ad oggi sinonimo di un lusso understated, non urlato ma visibile. Un concetto, quello della qualità assoluta, ma educatamente sotto traccia, con un rumore attutito forse dal cashmere che dopo l’abbuffata di loghi degli ultimi anni piace molto a chi ha una cultura della moda e del prodotto che va ben oltre il trend stagionale, una sorta di aristocrazia dei connoisseur: e infatti, l’ultima ossessione americana è il baseball cap in cashmere del brand, visto addosso ad uno dei protagonisti di Succession, pluripremiata serie americana che racconta le vicissitudini, gli inganni e gli intrighi all’interno della famiglia dei Roy, dove i fratelli e le sorelle eredi al trono del Tycoon delle comunicazioni Logan Roy se ne combinano di ogni per candidarsi al ruolo di erede della dinastia.

A metà marzo, in occasione dell’apertura del nuovo negozio a Palo Alto, in California, il brand ha infatti annunciato il lancio di un nuovo servizio di tracciabilità e autenticità. Grazie a un Qr code presente sui capi realizzati con la lana The Gift of Kings® sarà possibile scoprire la storia della manifattura dei singoli pezzi, in quale fattoria è stata raccolta la fibra o quando il capo finito è arrivato in boutique. Inoltre è possibile registrare la proprietà del capo online: capi che, nel caso di Loro Piana, sono fatti per durare anni, ed essere tramandati di generazione in generazione, e di conseguenza sarà possibile trasmettere il certificato al successivo proprietario.

Un processo reso possibile grazie all’utilizzo della tecnologia di Aura Blockchain Consortium, che sarà applicata a tutti i prodotti realizzati con questa lana speciale, ottenuta dalla tosatura di selezionati esemplari di merino in Australia e Nuova Zelanda, una delle più antiche ed esclusive al mondo, leggera e morbida, più fine del baby cashmere, quasi quanto la vicuña (circa dodici micron). Nel caso di Loro Piana, il progetto è attuabile e merita la fiducia del consumatore in quanto la filiera del brand è verticalmente integrata: ogni passaggio del processo produttivo viene controllato internamente, dalla materia prima al prodotto finito, di modo da validare, passo dopo passo, un prodotto autenticamente rispettoso della biodiversità e delle regole necessarie ad essere definito, a tutti gli effetti, made in Italy.

L’adozione di pratiche commerciali che siano socialmente responsabili è ad oggi un dovere per i brand che si inseriscono tra i “big player”, insomma, tra le squadre più importanti del sistema moda. Raccontarsi al proprio pubblico, tramite lo strumento della tecnologia, far conoscere a chi indossa il capo finito la sua storia, in fondo non ne dissacra il mistero, ma ne aumenta il valore e ci fa sentire più vicini a chi quel capo lo ha confezionato per noi. Il partner in questo caso è il già citato Aura Blockchain Consortium, associazione senza scopo di lucro fondata nel 2021 con sede in Svizzera e che promuove l’uso, appunto, della blockchain. Ricordiamolo a chi non è fluente con il linguaggio più recente dell’hi-tech: la blockchain è un insieme di tecnologie che è capace di gestire e aggiornare, in modo certificato e sicuro, un registro che contiene dati e informazioni in maniera aperta, condivisa e distribuita senza la necessità di un’entità centrale di controllo e verifica. Usata inizialmente per le transazioni online con le criptovalute – oggi purtroppo in un momento di crollo generalizzato – la moda la sta invece utilizzando per garantire la trasparenza della propria supply chain, con informazioni che sono facilmente verificabili.

Sforzi, quelli di Loro Piana, che sono promossi anche all’interno del gruppo del lusso di cui il brand fa parte, e che è LVMH. Il colosso francese, infatti, ha aderito alla task force di Sustainable Markets Initiative, associazione fondata dal Re Carlo, e guidata da Federico Marchetti, il fondatore di Yoox. In occasione del Summit del G7 sul clima di novembre 2021, SMI ha presentato un progetto che raggruppa i maggiori gruppi del lusso, uniti dal desiderio di creare una sorta di carta d’identità digitale dei propri capi, attraverso proprio un QR code con informazioni che permetteranno ai consumatori di conoscere la storia del capo, di avere informazioni credibili su fabbricazione, produzione, sostenibilità della filiera, ma anche sui servizi di riparazione e rivendita, permettendo di fare scelte di acquisto che puntino alla longevità e che sostengano l’economia circolare.

Più di recente, a ottobre scorso, Chloé, brand parte del gruppo Richemont, tra i fondatori di Aura Blockchain Consortium, ha annunciato il suo progetto Chloé Vertical, che punta invece alla tracciabilità delle materie prime. Tutte le scarpe, le borse e l’abbigliamento della collezione ss 2023 utilizzano infatti materiali tracciabili, e potranno essere rivenduti tramite Instant Resale, grazie alla collaborazione con Vestiaire Collective, partner esclusivo del progetto. Compilando un modulo, la piattaforma valuterà i singoli pezzi, dopo averne visualizzato immagini e dettagli, e corrisponderà l’importo dovuto al venditore anche se non c’è ancora un acquirente, a testimonianza del fatto che anche le piattaforme di reselling sono interessate a includere nella loro offerta dei prodotti “tracciabili”, di conseguenza affidabili e di ottima qualità.

Anche Levi’s ha lanciato una collezione di denim tracciabile al cento percento grazie al brand di Hong Kong The R Collective. The Denim reimagined, capsule di nove pezzi in materiali che provengono dagli archivi del brand americano, presenta sulla sua etichetta un codice Qr che dà indicazioni pratiche ai consumatori su come ridurre la propria impronta di carbonio, con indicazioni sui lavaggi e le asciugature, su come ripararli o riciclarli alla fine del loro ciclo vitale. In effetti, se sono le abitudini dei produttori nella manifattura a dover cambiare per prime, uno sforzo deve farlo anche chi quei prodotti li usa, li riusa, e li indossa. Come ha infatti spiegato Christina Dean, fondatrice di The R colletctive, dopo la coltivazione del cotone, la seconda fase del denim che è maggiormente inquinante è proprio la Customer care, ovvero come il proprietario del pezzo se ne prende cura (calcolata intorno al trentasette percento delle emissioni totali del pezzo). Lavare il denim con l’acqua fredda riduce ad esempio l’impatto climatico del sessantanove percento mentre evitare l’asciugatrice diminuisce del sessantacinque percento le emissioni.

Mulberry – parte dei brand nel gruppo di SMI – ha fatto squadra con la piattaforma di software EON per un’iniziativa che aggiungerà un Qr code alle borse second hand che fanno parte del suo programma di rivendita, the Mulberry Exchange. Scannerizzandolo si otterrà una carta d’identità digitale dei pezzi, per promuovere l’economia circolare, i servizi di autenticazione ma anche di riparazione. Un approccio che sarà esteso a tutti i prodotti del brand, ha annunciato Mulberry entro il 2025.

L’elenco potrebbe proseguire praticamente all’infinito a dimostrazione di come tutti i brand, con progetti di diverso respiro e grandezza, ma guidati dallo stesso scopo, si stiano muovendo nella direzione della tracciabilità, che a quanto pare, oltre a essere necessità improrogabile nella strategia delle maison, risponde anche a richieste specifiche dei consumatori, a cui quegli argomenti interessano sempre di più. A sostenerlo è l’Osservatorio Civic Brands, progetto editoriale e di ricerca nato nel 2019 dalla collaborazione tra Ipsos e Paolo Iabichino, che vuole indagare l’impatto sociale delle aziende in Italia. Proprio di civismo di marca si è parlato nel corso di “No Purpose, No Party” – il primo evento in Italia dedicato ai civic brands – che si è tenuto il primo marzo presso la Triennale di Milano, durante il quale è stata presentata anche l’ultima rilevazione condotta da Ipsos.

Secondo i dati, rilevati per l’ultima volta a dicembre 2022, oltre una persona intervistata su due – il cinquantasei percento – dichiara di essere attenta ai comportamenti in ambito sociale, culturale o politico da parte delle aziende. Nello stesso tempo però dichiarano che, in un periodo come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dal caro vita, l’attivismo dei brand si dovrebbe tradurre in un supporto tangibile al consumo, ovvero in un aiuto reale ed economico. Il settantanove percento, infatti, sostiene che marche e aziende, in questo momento, dovrebbero agire principalmente per contribuire a porre un freno al continuo incremento dei prezzi. (Un po’ difficile farlo quando è aumentato esponenzialmente il costo delle materie prime, ci sentiamo di commentare).

Facendo un confronto con i dati raccolti nel 2021, si registra un aumento delle persone che dichiarano di non credere all’impegno delle aziende in ambito sociale, culturale o politico. Troppo spesso, infatti, i consumatori e le consumatrici percepiscono le dichiarazioni di impegno da parte solo come un modo per lavarsi la coscienza (56 per cento, +5 punti rispetto al 2021), oppure dichiarano che in fondo l’unico interesse reale delle aziende è e rimane il profitto (51 per cento, +7 punti rispetto al 2021). Quasi la metà delle persone intervistate (il quarantasette percento) dichiara di avere addirittura smesso di comprare alcuni prodotti o servizi di alcuni brand perché deluso dal loro comportamento in ambito sociale.

«L’attenzione verso il ruolo sociale, politico, culturale che i brand devono giocare per la collettività, cresce di pari passo alle aspettative nei loro confronti. Raccogliere questa richiesta e agire per il bene collettivo richiede però impegno, costanza e soprattutto trasparenza e dialogo con tutti gli interlocutori, siano essi istituzionali che singole comunità di individui. Non può esistere oggi impegno da parte delle aziende senza un chiaro patto di fiducia con i cittadini», commenta Andrea Fagnoni, Chief Client Officer Ipsos e uno dei fondatori dell’OCB.

Ecco, forse il mondo non lo si può cambiare in pochi semplici passi e Roma in fondo non è stata costruita in un giorno, ma la trasparenza, la tracciabililità, un Qr code che permette al consumatore di entrare nella storia, negli uffici e nelle fabbriche di un brand, potrebbe portare, per la prima volta, ad aprire un canale di comunicazione con un cliente ormai abituato a percepire la moda come un’entità elitista, lontana, irraggiungibile. E ad accorciare le distanze, finalmente tra noi e un ecosistema del quale siamo ospiti, con il quale è imprescindibile trovare un equilibrio.

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