Questo potrebbe essere un articolo dedito a convincere Linkiesta dell’urgenza d’inviarmi a vagliare le migliori spa del mondo e produrre una serie di reportage su chi ti massaggia meglio e chi ha le stanze più confortevoli e chi gli impiegati più silenziosi (un dettaglio importante, tenetelo a mente ché poi ci torniamo).
È infatti accaduto ch’io abbia cercato su Google le parole “world’s best spa”, e abbia aperto i primi articoli che comparivano. In uno, c’erano sedici spa in tutto il mondo di cui due italiane (una in Toscana, e il solito Chenot a Merano). Tra di esse l’unica in cui ero stata era il Chiva-Som, in Thailandia. (La confusione tra maschile è femminile è perché le spa sono in realtà alberghi con spa, e quindi una li declina al maschile ma poi dice «la spa» e non si capisce più niente: che sia il primo passo verso il neutro nelle lingue romanze, la spa maschia?).
Il Chiva-Som, che ai tempi miei era raccontata dalle riviste patinate come la migliore spa del mondo nonché come il posto in cui in piscina poteva capitarti d’avere il lettino vicino a quello di Kate Moss, è la migliore spa del mondo ancora nel 2022, secondo Condé Nast Traveler, mentre neanche compare nella classifica delle venti migliori spa secondo Harper’s Bazaar. Non sarò certo io a dire che queste classifiche sono compilate col criterio «quelli che ci hanno fatto fare una vacanza gratis».
Nel 2023 sempre CNT fa una classifica per categorie, un po’ come quelli che su Amazon fotografano la classifica settoriale dei libri di giardinaggio e detective per dire che il loro giallo su un coltivatore di ortensie è il romanzo più venduto. E al primo posto nella categoria «medical miracles» c’è Palazzo Fiuggi, il che risponde (forse) alla domanda che più mi sono fatta negli ultimi giorni.
Martedì sera ero seduta al tavolo d’un’enoteca con un’amica e alcuni sconosciuti, e a un certo punto le misteriose vie della conversazione sono arrivate a: perché i turisti stranieri sono così fissati col lago di Como? La mia tesi era che dipendesse da George Clooney e dalla sua villa, e che lui l’avesse comprata perché aveva scoperto l’esistenza della zona da Donatella Versace o simili. La tesi d’un altro tizio è che la zona l’avesse resa celebre “Guerre Stellari” (non ho idea di cosa parlasse: non vedevo “Guerre Stellari” neanche quando ancora non si chiamava “Star Wars”).
Cercavo di spiegare che George Clooney probabilmente aveva reso il lago di Como una citazione da riviste patinate, un po’ come i ristoranti in cui andavano quelle di “Sex and the city” e che noialtre provinciali eravamo smaniose di frequentare venti e spicci anni fa. I commensali non mi capivano: erano maschi.
Poi sono tornata a casa, e ho visto la cosa più inspiegabile di tutti i tempi. Oprah Winfrey – multimiliardaria in dollari, donna più famosa del mondo, decenni di carriera televisiva, non una che campa dicendo guardate come sono buoni i sofficini che mangio, la sua fama e la sua credibilità in genere le spende solo per promuovere romanzi, come peraltro raccontavo di recente – annuncia su Instagram che è stata nel posto più bello del mondo e che ne parla sul sito del suo giornale.
Clicchi, e trovi trecento righe sul suo soggiorno a Palazzo Fiuggi, spa appunto a Fiuggi, fuori Roma, di cui nessuno ch’io conosca aveva mai sentito parlare, e che ora sarà più desiderata del posto in cui mangiavano il sushi Carrie e Miranda.
Oprah scrive che l’ha trovata guglando “world’s best spa”, il che è del tutto inverosimile ma ha almeno la copertura fattuale della classifica di Condé Nast. Non me la vedo Oprah che di notte cerca una spa e poi guarda su Last Minute se ci sono delle stanze in offerta, ma in effetti c’è almeno una testata ben indicizzata che la ritiene la spa migliore del mondo.
Chi è giovane non lo sa, ma la gente famosa non ha mai pagato niente. C’è un documentario d’un secolo fa sulle Spice Girls in cui Geri Halliwell a un certo punto, scartando un’abbondanza di omaggi, dice: «Dov’era Estée Lauder quando non potevo permettermi le sue creme?». Alla gente famosa, o anche solo alla gente ricca, sono sempre state date molte più cose in omaggio di quante ne siano state date a chi dell’omaggio avrebbe bisogno. E con «sempre» intendo: prima dei social. Prima che tutto diventasse un baratto.
È sempre stato molto raro che una persona nota pagasse il conto al ristorante, chiunque sia stato a cena con gente nota lo sa, perché la fama è sempre stata valuta corrente, e ai ristoratori ha sempre fatto piacere offrire la cena al cantante, all’attore, a quello di cui poi poter dire ai figli «L’ho visto da vicino: è basso», o con cui al massimo farsi a fine serata una foto da appendere come arredo (mezza trama di “Borotalco” si basa sulla verosimiglianza di Cesare Cuticchia che si mette in casa le foto coi famosi che si è fatto quando aveva «un ristorantino a Trastevere»).
Ma anche a livelli molto più infimi di notorietà: anni fa feci una vacanza gratuita in un posto splendido perché una giornalista famosa ci era stata, me l’aveva consigliato, e il proprietario dell’albergo, sapendo che ero sua amica, a fine soggiorno non mi fece pagare nulla. Oggi (giustamente) si aspetterebbe non un articolo (di cui non frega niente a nessuno), ma dieci storie su Instagram con tag.
L’altra sera un’ex soubrette ha taggato la pizzeria della provincia di Milano in cui aveva preso la pizza, e con un’amica ci siamo baloccate chiedendoci quale fosse la molla: risparmiare sulla pizza, o sentirsi lusingate dal fatto che in quella pizzeria la trattassero come fosse ancora una star?
Io ormai vivo talmente nel terrore del baratto che rispondo con sbrigativa cafonaggine «grazie, me lo compro» a chiunque mi chieda l’indirizzo per mandarmi una cassa di vino, un cappotto, un campionario di piastrelle.
E quindi, quando Oprah che baratti non ha bisogno di farne e ha un tale patrimonio che per convincerla a dire quanto sian buoni i sofficini servono tariffari che un abaco non basta a conteggiare, quando Oprah che Palazzo Fiuggi se lo può comprare e farne un campo da golf, quando Oprah che è abituata a qualunque lusso e voluttà scrive che lei è stata in tantissime spa ma non ne ha mai visitata una così pazzesca, le provinciali come me s’impressionano.
Sono ovviamente corsa subito sul sito di Palazzo Fiuggi, che mi è sembrato offrisse quel che ormai è normale in ogni spa di lusso, da Fonteverde in giù: visite mediche, trattamenti personalizzati, sport assortiti. Avrei anche prenotato (sono suggestionabile), ma il sito non prevede che si prenoti: devi inserire i tuoi dati e le tue richieste, e ti contattano loro. È un po’ come l’ospedale di Bologna al quale per fare la tac devi mandare un fax, e io più invecchio più somiglio a Carrie Fisher quando diceva che instant gratification takes too long: figuriamoci se posso concepire una prenotazione non immediata.
Quindi, invece di prenotare, ho passato due giorni a parlarne con chiunque: secondo te l’hanno pagata, o conosce qualcuno che ci lavora, o era a vedere i Musei Vaticani e ha chiesto «c’è mica una spa qui vicino?», o crede davvero alle classifiche delle spa dei giornali patinati, o – nessuno sapeva cosa pensare.
Neanch’io. Quindi ho ripensato al Chiva-Som, dove fui felice come non mai essenzialmente per una ragione. In quegli anni vivevo a Roma, e a Roma non c’era una massaggiatrice che non pretendesse di fare conversazione. Ne ricordo una che se non la intrattenevi s’offendeva. Tu paghi per rilassarti, e invece ti tocca sentire i problemi con la cognata della massaggiatrice – e non basta annuire, devi partecipare.
Al Chiva-Som, per dieci giorni, l’unica frase che sentii durante i massaggi fu «is the pressure alright?». Vuoi vedere che, sebbene Fiuggi sia più vicina a Roma che a Bangkok, Oprah ha avuto la miracolosa fortuna d’incontrare una massaggiatrice silente, e a quel punto trecento righe di gratitudine le sembravano il minimo?