Così florido e così fragile, l’arcipelago delle isole Galápagos – a circa novecentosettanta chilometri a ovest dalle coste del Sudamerica – è un tempio della biodiversità, nonché lo specchio del deterioramento del nostro Pianeta a causa delle attività antropiche. Qui, nel 1835, Charles Darwin fece delle scoperte fondamentali per affinare la teoria dell’evoluzione. A quasi duecento anni di distanza, le cose sono un po’ cambiate (e non in meglio). Gli effetti della crisi climatica, l’introduzione di nuove specie invasive, la pesca intensiva e il turismo stanno minacciando una quantità crescente di animali (dalle iguane ai leoni marini) e piante che popolano questi territori ormai da millenni, e mai come ora è necessario intensificare le attività di ricerca per monitorare lo stato di salute dell’ecosistema e capire come intervenire in modo mirato.
Ad esserne convinta è l’oceanografa americana Sylvia Earle, classe 1935, prima donna a presiedere il National oceanic and atmospheric administration degli Stati Uniti. «Se la metà dei pesci in mare è di sesso femminile, allora una donna a bordo ci farà comodo», le risposero nel 1964 quando fece domanda per partecipare a una spedizione di soli uomini. Una pioniera a tutti gli effetti, che visitò l’arcipelago per la prima volta nel 1966 accorgendosi immediatamente di essere in un luogo privo di eguali sulla Terra: «È il posto più pescoso e pieno di squali che abbia mai visto», disse all’epoca.
Nel 2009, Sylvia Earle fondò l’organizzazione non-profit Mission Blue, che è anche il titolo del docufilm, presente su Netflix, che racconta la sua storia. È stata lei, assieme agli esperti dell’associazione, a inserire le Galápagos tra gli hope spot del nostro Pianeta, in quanto la ricchezza della loro biodiversità è in grado di dimostrare la reversibilità dei danni causati dall’uomo negli ambienti oceanici. Ed è stata lei, a più di dieci anni dalla nascita di Mission Blue e a quasi venticinque anni dalla creazione della Riserva Marina delle Galápagos, a guidare una spedizione di due settimane per capire come orientare gli sforzi conservazionistici all’interno dell’arcipelago.
L’impresa è stata sostenuta dall’iniziativa Perpetual Planet di Rolex – brand di cui Earle è testimonial dal 1982 -, che supporta il lavoro e le ricerche di scienziati ed esperti che «si spingono oltre i limiti per garantire al pianeta un avvenire perpetuo», nella speranza di consegnare alle generazioni future una Terra quantomeno abitabile. L’obiettivo del viaggio era mettere nero su bianco una valutazione completa dell’ecosistema marino delle Galápagos. Un traguardo non banale, soprattutto perché queste spedizioni sono onerose sotto tutti i punti di vista, e spesso i governi nazionali non forniscono alla scienza il supporto necessario per studiare questi paradisi terrestri.
Il team di scienziati ha sfruttato lo strumento molecolare per catturare il Dna ambientale, ovverosia quei frammenti di Dna dispersi nell’ambiente dalle specie animali che lo popolano (preziosissimo per monitorare la biodiversità presente e passata). Grazie all’analisi di questo patrimonio genetico, all’uso dei sistemi di video subacquei e alla potenza del sommergibile DeepSee, gli esperti di Mission Blue potrebbero aver trovato «il tassello del puzzle che spiega la ricchezza della biodiversità e della biomassa alle Galápagos». A sostenerlo è la biologa marina Salome Buglass (Charles Darwin Foundation), secondo cui la ricca vegetazione di alghe in profondità svolge un ruolo essenziale nella protezione della biodiversità nella regione.
Quella alle Galápagos non è l’unica spedizione sostenuta da Perpetual Planet di Rolex. Degna di nota è l’iniziativa in collaborazione con Rewilding Argentina e Rewilding Chile, due costole della fondazione Tompkins Conservation, che proteggono i paesaggi sudamericani. Tra gli obiettivi centrati segnaliamo la reintroduzione di specie autoctone a Iberá (Argentina), la seconda palude di acqua dolce più grande al mondo.
Dal formichiere gigante fino alle lontre, passando dal cervo delle pampas, dall’ara rossa e verde e dagli ocelot: l’ecosistema – precedentemente danneggiato da allevamenti e coltivazioni intensive – è stato pian piano ricostruito, e la sua autosufficienza non è più un’utopia. Discorso simile per la Patagonia cilena, dove è stata rafforzata la popolazione di specie a rischio come il puma, il nandù e il cervo delle Ande (simbolo nazionale del Cile).
Le spedizioni leggendarie per la salvaguardia della biodiversità hanno raggiunto anche i bacini fluviali del continente africano grazie al progetto Great Spine of Africa, oppure i fondali delle gelide acque del Mar Glaciale Artico con il programma di esplorazione sottomarina Under The Pole. Da non dimenticare il monte Logan, il più alto del Canada, dove sono state organizzate operazioni di carotaggio dei ghiacci in un’area che – come poche altre – è in grado di raccontare l’evoluzione dei cambiamenti climatici causati dalle attività umane.
Perpetual Planet è arrivato persino in Italia, a largo delle coste di Savona. Il Mar Ligure è contraddistinto dalla presenza di cetacei come la balenottera e il capodoglio, le vere sentinelle dei mari: la loro presenza dice molto sullo stato di salute di un ecosistema. Qui, Rolex ha sostenuto le attività di monitoraggio del gruppo di ricerca marina Menkab, che tramite la fotoidentificazione – come spiega la presidente di Menkab Giulia Calogero – realizza «una sorta di carta di identità» in modo non invasivo.
Per raggiungere le zone più insidiose durante le immersioni, gli esperti hanno utilizzato un veicolo comandato a distanza dotato di telecamera. Un lavoro che si è focalizzato sul Santuario Pelagos, area protetta di quasi novantamila chilometri quadrati che ospita otto specie di diversi cetacei. Si tratta di una irrinunciabile zona di riproduzione delle balenottere, che vivono insieme a delfini e ad altri mammiferi marini minacciati dalle eliche delle barche o dalle reti da pesca.