La guerra lascia un’orma indelebile su tutto ciò che tocca. «Storpia le anime e i corpi umani, distrugge gli edifici e ferisce la natura. Tutto ciò che rimane è devastazione, dolore e sofferenza». Negli scatti del fotografo ucraino Maxim Dondyuk questa corrosione è lacerante. Il tratto dei suoi lavori, dice a Linkiesta, è l’emozione. Alla neutralità non è interessato: perché non ha (più) senso, l’obiettività non contiene altro che fatti e cosa te ne fai, dentro un conflitto? Il pericolo può essere ovunque, la paura tangibile, ma non paralizzante. Chi si immerge, come fa lui, deve prendere una posizione, che lo voglia o no. Prendiamola anche noi. Le sue opere sono esposte fino al 17 settembre alla mostra organizzata da Fondazione Imago Mundi alle Gallerie delle Prigioni di Treviso.
Ha documentato un decennio di storia ucraina, dalla rivoluzione del 2013/14, all’annessione della Crimea, la guerra in Donbas e infine l’invasione. Perché ha cominciato allora e qual è l’importanza del suo lavoro oggi?
Ero abituato a fidarmi della mia voce interiore, dei miei sentimenti e delle mie emozioni. Nel 2013, quando è iniziata la Rivoluzione, ho sentito che dovevo esserci, che era un momento storico importante per l’Ucraina. Ma nelle prime settimane non avevo capito come volevo mostrarlo. Un aspetto molto importante di ogni mio progetto è la piena immersione. Ho bisogno di sentire l’atmosfera del luogo, la felicità, la rabbia, il dolore e la paura di quelli e di ciò che fotografo.
A un certo punto, quando vivevo con i manifestanti in Piazza Indipendenza, dimenticavo il luogo, il tempo e la causa di quanto stava avvenendo e mi sentivo trasportato in un posto fantasmagorico che ricordava le orribili battaglie delle guerre del passato. Ciò che ho provato a catturare era il più astratto, universale conflitto che era messo in scena, tra luce e ombra, tra lo spesso fumo nero e il candore della neve di febbraio e, in un certo senso, tra il Bene e il Male. Immense scene di battaglia lampeggiavano davanti ai miei occhi: scene che avevo visto nei musei o letto sui libri. Non era più solo l’Ucraina: sento spesso dire da alcuni che certe fotografie gli ricordano scorci della Rivoluzione Francese, o di altre guerre, e questa è la cosa più importante.
Si considera un fotografo di guerra?
Voglio sia chiaro che non lo sono, non l’ho mai voluto essere e non lo sarò mai. Quando la guerra in Ucraina sarà finita, tornerò ai miei progetti artistici slegati dalla guerra e certamente non continuerò a coprire conflitti in altri Paesi. Non mi interessa. Ma ora che la guerra è venuta nella mia nazione, sento che è mio dovere come fotografo documentarista e come ucraino immortalare questo momento storico per il presente e il futuro.
Oggi assistiamo al momento epico della battaglia, il combattimento finale, per l’indipendenza dell’Ucraina e per la democrazia, il cui esito è immensamente importante non solo per la gente di qui, ma anche per un’Europa unita e tutto il mondo civilizzato. Non voglio nient’altro che questa guerra finisca. A prescindere dallo Stato, la guerra non ha vincitori, perdono tutte le controparti. Voglio trasmettere tutto il dolore e l’orrore della sofferenza nel modo più emotivo possibile, voglio stravolgere lo stile di vita confortevole dei visitatori con queste immagini. La guerra storpia le anime e i corpi umani, distrugge gli edifici e ferisce la natura. Tutto ciò che rimane è devastazione, dolore e sofferenza. Lascia un’orma incancellabile su tutto ciò che tocca.
Dove sta lavorando al momento? Qual è la situazione lì?
Io e mia moglie siamo basati a Leopoli, Ucraina occidentale. Avevamo affittato un appartamento qui pochi mesi prima della guerra, per lavorare al mio altro progetto su Chernobyl. Prima abbiamo vissuto in Asia, in Tailandia e Vietnam, per tre anni. Ma dal 24 febbraio 2022, quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina, passo quasi tutto il mio tempo a documentare la guerra e le sue conseguenze. Sono potuto tornare a casa la prima volta solo dopo cinque mesi dall’inizio dell’aggressione, a metà giugno. Ci sono stato quattro volte quest’anno, tre delle quali per una mostra in Europa. Ora il nostro governo ha chiuso le porte anche per gli artisti, quindi purtroppo non posso più lasciare il Paese. Per questa ragione non sono potuto andare all’inaugurazione a Treviso.
Al momento ho preso una pausa, almeno fino a maggio, dalla fotografia e sto restando a Leopoli per lavorare al mio nuovo libro fotografico sulla guerra in Ucraina che, spero, uscirà quest’estate. Ho bisogno di guardare attraverso tutto quello che ho fatto dal 24 febbraio e operare una selezione. È una delle cose più difficili per me, perché tutto questo è ancora troppo vicino a me: ogni cosa e ogni persona che ho fotografato. Di solito, preferisco staccare per diversi mesi dopo la fine degli scatti, ma stavolta è molto problematico, la guerra va avanti. Durante il 2022 e ancora adesso, tutti i miei progetti artistici sono congelati: continuo a documentare il conflitto, è la cosa più importante per me in questo momento.
Death, 2022. Courtesy dell’artista
A Treviso sono esposte molte sue fotografie iconiche, ce n’è una a cui è più legato di altre?
No, non è possibile evidenziarne una. Ciascuna racchiude memorie ed emozioni specifiche. Anche se i visitatori non lo sentono, è ancora nella mia testa. È come chiedere a quale dei figli vuoi più bene.
Nel biancore accecante della neve, tra rovine e rottami, molti scatti restituiscono le cicatrici della guerra, sia nella materia sia nel paesaggio e, soprattutto, sui civili. Spesso si dice che il giornalismo sia un «parente povero» della Storia: per le sue fotografie sembra vero il contrario, sono Storia che si realizza. È d’accordo?
La mia fotografia non è giornalismo, sono troppo lontano dal giornalismo. Il fotogiornalismo aspira all’obiettività, mentre per me l’obiettività non ha senso, non contiene nient’altro che fatti. E una funzione del genere può essere svolta da un videoregistratore o da una webcam. Non ti serve un essere umano per quello. Serve un essere umano per la fotografia soggettiva, la riflessione e le emozioni. Le emozioni ricoprono la parte più importante nella mia fotografia. Non ho mai pensato che essere neutrali fosse positivo. È normale schierarsi da una parte o dall’altra, lo facciamo tutti. Può restare neutrale solo chi va in un Paese come turista o giornalista per un paio di settimane.
Ma se ti immergi nella situazione o, come me, vivi in questa nazione a lungo, allora dovrai prendere posizione, che tu lo voglia o no. Per questo penso che la fotografia neutrale sia priva di emozioni. Naturalmente è importante mostrare entrambi i lati quando è possibile e nei miei progetti cerco sempre di ascoltarli tutti e due. Credo nella fotografia soggettiva, metto nella fotografia le mie emozioni – e tutto ciò che provo: rabbia, paura, disappunto, dolore, lacrime, gioia. Quindi le fotografie si riempiono di vita. Più sono forti i sentimenti che vivi, più forte sarà la tua arte, che sia la fotografia, dipingere, scrivere libri, fare musica. È per questo che spesso il fotogiornalismo oggettivo, che nega la soggettività e le emozioni, può essere banalmente noioso: informativo, ma senza un lato emotivo.
Documentare la guerra può servire contro tutta la propaganda che circola?
La propaganda usa sempre la fotografia documentaristica, ma la fotografia in sé non ha effetto sulla propaganda. Ciascun campo può usare la fotografia per i suoi scopi. Infatti, non credo non esista una cosa come la propaganda: ce n’è una occidentale, ucraina, americana e così via. In tempi di guerra, nessun governo enfatizzerà mai un punto che non gli sia favorevole. Sogno di vivere in un mondo dove non ci siano divisioni nazionali né religiose. Quasi tutte le guerre sono state combattute perché abbiamo diverse religioni e nazioni. Possiamo provenire da culture e fedi differenti mentre siamo sullo stesso pianeta, quindi separo nettamente la religione dalla fede e la nazione dalla cultura.
Troppi fotografi, registi, attori e artisti in generale sono morti al fronte. È mai stato ferito o ha temuto per la sua vita?
Il fatto è che ognuno dei miei progetti è pericoloso in un certo senso. Per esempio, “L’epidemia di tubercolosi in Ucraina”, un’indagine visiva di due anni sul problema della tubercolosi in Ucraina. O il mio progetto su Chernobyl, dove lavoro con foto, negativi, pellicole e lettere che ho raccolto negli insediamenti abbandonati nella zona di esclusione. E ora la Rivoluzione e la guerra.
Tutto dipende dalla situazione. Considerando che c’è una guerra, il pericolo può essere ovunque. Puoi recarti in un luogo più o meno calmo, ma lì nel giro di un minuto può iniziare un bombardamento. Ci sono momenti in cui devo andare sulla linea del fronte o in luoghi che vengono bombardati. Certo, puoi restare ferito, come mi è successo nelle prime settimane di guerra, mentre ero a Irpin, nella regione di Kyjiv.
La paura è sempre presente. Ogni persona normale la sperimenta. Abbiamo bisogno di provare timore per controllare la situazione. La paura dev’essere tangibile, ma non paralizzante. È difficile descrivere le mie sensazioni perché è difficile immaginare nella società moderna, oggi, che una grande potenza possa semplicemente distruggere una più piccola nazione confinante con bombe aeree, missili, artiglieria, carri armati e soldati, sparando a civili, donne, bambini, incendiando intere città e devastando tutto ciò che incontra.
C’è una famosa, e inflazionata, citazione di Robert Capa che recita «Come fotografo di guerra, spero di restare disoccupato per il resto della mia vita». Lei non si considera un fotografo di guerra, ma immagini come le sue sono essenziali per intuire cosa sia la guerra davvero. Quanto proseguirà questa fase e quale sarà il suo primo progetto dopo la vittoria?
Di nuovo, non sono un fotografo di guerra né un fotogiornalista. Sto documentando la guerra, al momento, solo perché avviene nel mio Paese. È dura dire quale sarà il mio prossimo progetto dopo la vittoria, aspettiamo fino ad allora. Ma, come detto, non seguirò conflitti in nessun altro posto.