L’Europa può tornare a giocare da protagonista nel grande mercato mondiale delle telecomunicazioni, come non faceva dai tempi dello standard Gsm per la telefonia mobile. Certo, ci sono state le maxi multe a Microsoft nel 2008 e nel 2013 e, due anni fa, quella da 4,3 miliardi a Google. Ma una multa, per quanto clamorosa, è una cosa, ridisegnare ex novo le regole di un intero settore globale come le tlc è tutt’altra.
E nel caso dei rapporti tra telco e Ott, tra i proprietari delle reti in banda larga e i giganti del Big Tech che le usano e le saturano c’è davvero da rimettere in discussione tutti i fondamentali di un settore che negli ultimi trent’anni ha visto l’ascesa e la caduta della potenza economica delle telco, e di seguito l’esplodere della potenza planetaria di realtà come Google, Amazon, Facebook e Netflix. Non andrebbe neanche detto: non sarà facile.
Un mese fa la Commissione europea, nella persona del commissario al Mercato Interno, Thierry Breton, ex ceo di France Telecom, ha aperto una consultazione esplorativa sul cosiddetto fair share. Si tratta di capire quale possa essere un nuovo punto di equilibrio tra le telco e gli Ott.
Le telco lamentano che le loro tariffe da anni non riescono quasi più a coprire gli investimenti nella banda ultralarga della fibra. Non si tratta solo di posare cavi e portarli anche agli utenti più distanti, ma di tutti gli investimenti che servono a rispondere alla crescita della domanda. Che cresce soprattutto per le esigenze di traffico dei vari Netflix, Prime Video, Disney. Il traffico dati generato dalle tv via streaming cresce del trenta per cento l’anno e cresce anche la domanda di garantire traffico dati di qualità: anche la tv via streaming ha la sua alta definizione.
Ma le telco devono anche investire sulle nuove reti mobili 5G per cui hanno già pagato le frequenze e per cui devono anche rispettare obblighi stretti nell’avanzamento dello sviluppo e dell’installazione delle reti stesse. I loro ricavi però sono in costante contrazione e ancora di più i margini. Lo denunciano da anni. L’ultima è stata Christel Heydemann, la ceo di Orange, la ex France Telecom, che ha aperto il suo intervento al Mobile World Congress di Barcellona, a fine febbraio, ponendo alla platea di ceo, executive e analisti delle tlc mondiali la domanda: «Chissà quante delle telco oggi presenti qui ci saranno ancora tra dieci anni?».
Ma far pagare Netflix e gli altri non è semplice. Perché i principi giuridici sono contrastanti, perché la lobby degli Ott, come ad esempio la Ccia, la Computer Communication Industry Association, che ha nel board membri di Amazon, Google, Twitter, si oppone ferocemente, spesso appellandosi al sacro principio della neutralità della rete. Serve una prova? Vale allora la pena di ripercorrere quanto è accaduto negli ultimi cinque anni in Corea del Sud.
Qui, nel Paese che ha il più alto tasso al mondo di penetrazione e di utilizzo della banda ultralarga, Netflix è sbarcata nel 2016, fornendo i suoi contenuti attraverso lo snodo internet di Seattle. Due anni dopo gli abbonati crescono, il traffico ancora di più, e Netflix apre un secondo nodo di scambio a Tokyo.
In pratica – e semplificando – duplica i suoi contenuti su ulteriori server per accelerare il servizio. Ma Skb, South Korea Broadband, uno dei tre operatori di banda larga coreani, che gestisce la connessione con Tokyo, deve investire per potenziare la portata di traffico. Chiede un contributo a Netflix, che rifiuta e si rivolge a un tribunale coreano perché ritiene la richiesta irricevibile. In compenso offre a Skb di installare a sue spese in Corea sulla rete di Skb, il suo sistema di server OCA: è un sistema proprietario e la Skb non lo potrà utilizzare per nessun altro che non sia Netflix. Skb rifiuta. Siamo al 2020, il traffico cresce ancora e Netflix apre un terzo snodo a Hong Kong. Nel 2021 il tribunale coreano rigetta la richiesta di Netflix e da allora la partita è in stallo. La storia, ricostruita da un esperto di policy del settore tech su un numero di Forbes dello scorso anno, è ferma.
La stampa coreana sta continuando a tenere alta l’attenzione con frequenti articoli che richiamano di volta in volta aspetti controversi della vicenda. A partire dalla domanda: perché ventitré milioni di utenti coreani in fibra devono pagare per far vedere meglio la tv via streaming ai soli cinque milioni di abbonati coreani di Netflix? E ogni tanto si rispolvera il vecchio contratto tra Netflix e le telco americane, che dal 2014 ricevono una fee per trasportare sulle loro reti i bit del gruppo di Reed Hasting. Sono Comcast (che in Europa controlla il gruppo Sky) e At&t, Verizon e Time Warner Cable.
Insomma, è una partita sulle regole del mercato globale o un’altra pagina del neoprotezionismo statunitense che tanti problemi di competitività sta creando alle imprese europee dai chip alle tecnologie verdi per le energie rinnovabili?
Adesso anche da Seul si guarda a Bruxelles e a quello che uscirà dalla consultazione europea. Dove già mettono però le mani avanti parlando di consultazione “esplorativa”. La partita sarà difficilissima. Perché le stesse telco vi arrivano con posizioni non completamente convergenti. E perché soprattutto l’Unione europea stessa dovrà ripensare uno dei suoi punti fermi degli ultimi vent’anni: che il mercato sappia far da sé e che l’unica regolamentazione necessaria si quella che promuove la concorrenza al suo interno. Ma finora non ha mai guardato fuori dai suoi confini affrontando il tema della competizione tra sistemi. E qui si tratta di disegnarsi un proprio ruolo, quello dell’Europa, tra Stati Uniti e Cina. Siamo un po’ oltre l’Antitrust.