Autocrazia Sud Saied respinge le riforme e intanto la Tunisia affonda

Il presidente governa con pieni poteri, rifiuta le condizioni chieste dal Fondo monetario internazionale per il prestito sponsorizzato da Italia e Ue. Il razzismo di Stato e il deterioramento delle condizioni economiche, politiche e sociali spiegano perché i flussi migratori dal Paese aumenteranno

Un manifestante tunisino tiene una bandiera del Paese in gabbia
Foto: Hassene Drid/AP

La crisi. Nel fitto vocabolario tunisino che ha riempito le agende della comunità internazionale in queste settimane, la crisi è il termine più appropriato per descrivere quello che sta succedendo nel piccolo Stato nordafricano.  Macchiata da più sfumature e da linee temporali diverse, oggi in Tunisia si sta assistendo a un progressivo deterioramento delle condizioni economiche, politiche e sociali.

Le casse del Paese e i mercati delle città. Si inizia da qui per arrivare alle ultime dichiarazioni razziste e xenofobe del presidente della Repubblica Kais Saied il 21 febbraio scorso contro la comunità subsahariana presente nel Paese:

«Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un Paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico».

Elementi che se messi insieme dipingono un quadro frammentato. Dai numeri si può partire per capire il primo livello emergenziale: oggi l’inflazione ha toccato il 10,4 per cento; il tasso di disoccupazione viaggia stabile sopra il quindici per cento e il debito pubblico di Stato si attesta sull’ottanta per cento del Pil.

Questo si traduce in una progressiva perdita di potere di acquisto da parte dei tunisini. Una perdita che va avanti da anni e che ha colpito anche i beni di prima necessità. Oggi, per una famiglia, fare la spesa al mercato vuol dire far fronte a un aumento dei prezzi verticale: la carne costa quasi il trenta per cento in più dell’anno scorso; l’olio il 25; le uova il 32 e così via.

Un processo in corso dal 2011, anno della Rivoluzione nel Paese che ha deposto l’autoritario Zine El Abidine Ben Ali, ma che si ferma sugli elementi più visibili e non conta la frustrazione di una popolazione che se guarda avanti vede solo un futuro di incertezze.

I dati macroeconomici non sono da meno. Le grandi agenzie di rating hanno stimato la Tunisia a un passo dal default e lo Stato si trova con un buco di bilancio tale da non riuscire a coprire i costi di importazione (il Paese ha poche risorse interne e si trova particolarmente esposto). Per questo motivo è finito sotto la lente d’ingrandimento un prestito da 1,9 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), considerato fondamentale per coprire parte del budget 2023.

L’Unione europea e l’Italia si sono dimostrate particolarmente interessate a questa nuova linea di credito – sarebbe la terza dal 2011 a oggi – spaventate anche dai recenti dati in aumento delle partenze dalla riva Sud del Mediterraneo.

Il presidente tunisino Kais Saied
Il presidente tunisino Kais Saied (Johanna Geron/ AP)

Le trattative sono finite a ottobre 2022. Tuttavia il Fondo monetario internazionale ha sospeso la chiusura definitiva dell’accordo per la mancanza di garanzie che offre al momento la Tunisia. L’istituzione di Washington chiede ingenti tagli alla spesa pubblica, l’eliminazione del complesso sistema di sovvenzioni statali e una progressiva riduzione delle imprese di Stato.

Tre elementi che rappresentano l’ossatura economica e finanziaria pluridecennale del Paese. Ieri, in un discorso pubblico, il presidente della Repubblica Kais Saied si è detto titubante rispetto a possibili scossoni sociali che queste misure potrebbero provocare: «Non ho intenzione di ascoltare diktat. La pace sociale non è un gioco e i tunisini devono contare su loro stessi».

Detto che lo sblocco di un prestito del Fondo monetario internazionale aprirebbe la porta anche ad altri tipi di finanziamenti internazionali, dalle parole del responsabile di Cartagine si denotano importanti elementi politici e, di conseguenza, il secondo livello emergenziale.

Kais Saied è stato eletto presidente della Repubblica nell’ottobre 2019 dopo una campagna elettorale densa di invettive contro i protagonisti del «decennio nero» (così viene chiamato il periodo di transizione democratica iniziato nel 2011). Ha poi governato due anni in coabitazione con Ennahda, il partito di ispirazione islamica del leader Rached Ghannouchi, prima di mettere in moto il suo piano per la Tunisia.

Sulla scia di una lunga crisi politica e sanitaria da Covid-19, il 25 luglio 2021 ha congelato il Parlamento, sciolto il governo e ha cominciato di fatto a governare con pieni poteri, nonostante la nomina a premier di Najla Bouden Romdhane. Ha poi smantellato il Consiglio superiore della magistratura, indetto un referendum costituzionale per sostituire il testo del 2014, considerato uno dei migliori al mondo, e organizzato nuove elezioni parlamentari che hanno visto il novanta per cento di astensionismo e un’assemblea drasticamente ridotta nelle sue funzioni.

Alla progressiva distruzione istituzionale della Tunisia è stata accompagnata una nuova fase dalle tinte fortemente autoritarie con una campagna di arresti di attivisti, direttori di giornali e oppositori con l’accusa di complottare contro lo Stato (a oggi sarebbero almeno trenta le persone in carcere per motivi politici) e una serie di discorsi nazionalisti. Come quello di ieri, quando ha posto fine a possibili accordi con agenzie internazionali per timore di possibili ingerenze straniere. O quello pronunciato il 21 febbraio scorso contro i cittadini di origine subsahariana per tutelare gli interessi di Stato.

Nel complesso gioco di azioni e controreazioni, i motivi dell’attacco alla comunità proveniente da Paesi come Costa d’Avorio, Guinea, Camerun e Sierra Leone non sono chiari. Sono chiari invece gli effetti. L’ondata di razzismo nei confronti dei subsahariani, già presente nel Paese da anni, è ulteriormente aumentata con arresti arbitrari, rastrellamenti casa per casa e violenze di ogni tipo. Questo ha portato molte persone ad accelerare il proprio percorso migratorio.

I dati lo confermano: la rotta tunisina è diventata la prima per importanza e, da inizio anno, sono trentamila le persone arrivate a Lampedusa o Pantelleria. Senza contare al momento le partenze dei tunisini, duramente colpiti dal degrado delle condizioni economiche personali e senza possibilità di chiedere visti per l’Europa, in deciso aumento da qualche anno (soprattutto nei mesi più caldi).

Unire la crisi economica, politica e sociale in corsa in questi anni permette quindi di capire il perché oggi dalla Tunisia si decida di partire e quali siano i veri timori di attori internazionali come l’Unione europea, preoccupata soprattutto di diminuire gli arrivi in Italia.

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