In più di vent’anni di carriera, Yuri Ancarani ha portato il videomaking dai centri d’arte di provincia al Festival del Cinema di Venezia, scardinando le rigide barriere che vorrebbero tenere separate cinema e videoarte, screening museale e uscite in sala. Ora, dopo Atlantide 2017-2023 al Mambo di Bologna, un altro spazio istituzionale accoglie le sue opere con Lascia stare i sogni, la grande retrospettiva a cura di Iolanda Ratti e Diego Sileo che – fino all’11 giugno – riempirà gli spazi del Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC) di Milano firmati da Ignazio Gardella con tutta la sua produzione storica. E anche un nuovo film. Per l’occasione, abbiamo chiesto al videomaker romagnolo di parlarci del suo lavoro.
Visto quello che tutti cercano di trovare una definizione per quello che fai, vorrei iniziare domandandoti: chi sei?
È molto difficile presentarsi. Sono Yuri Ancarani, sono di Ravenna, milanese d’adozione. Sono veramente connesso con la mia regione, dove torno spesso: ho una casa a Milano e una a Ravenna. Questa differenza, questo cocktail tra Lombardia e Romagna mi ha formato e mi ha fatto diventare ciò che sono oggi.
La Romagna è terra di grandissimi narratori, sia visivi che letterari. Com’è diventare un videomaker con alle spalle Antonioni, Fellini, ma anche Ghirri e Celati? Si sente un peso sulle spalle o è un input per camminare più veloce?
È sicuramente un input. Io utilizzo la tecnica del videomaking perché è quella più interessante per me in questo momento. Non è il cinema, anche se il cinema mi ha aperto le porte. È il medium sicuramente più giovane, forse meno preso in considerazione, ma ha delle grandissime potenzialità. [La Romagna] è una regione molto stimolante, perché dà tantissimo valore alla sperimentazione e alla creazione; fin da piccoli si è stimolati a creare qualcosa di diverso, cosa molto diversa da ciò che succede in Lombardia, che infatti mi ha insegnato la disciplina. La sperimentazione è un grandissimo valore.
I tuoi lavori sono stati proiettati ed esposti nei contesti più diversi: gallerie, musei, cinema più o meno grandi e più o meno legati al contesto artistico più stretto. A cosa pensi quando approcci un nuovo lavoro? Pensi a un formato, a una fruizione, hai qualcosa in mente a riguardo?
Quando ho iniziato con la serie Ricordi per moderni, nei primi anni duemila, già stava succedendo qualcosa di strano, perché presentavo questi film di tre-quattro minuti, e ai festival di cinema mi dicevano che erano degli spot, mentre nel mondo dell’arte mi dicevano che erano dei cortometraggi cinematografici. Ero molto frustrato, per me è stata una fatica capire che quello che stavo facendo era qualcosa di nuovo. Fai fatica a capirlo quando ti dicono tutti che stai sbagliando…
Che dovresti essere da un’altra parte…
Sì, hanno sempre cercato di mettermi a posto, soprattutto a Milano. Fortunatamente, ho resistito, e da problema è diventato un punto di forza, perché significa che questi lavori possono andare in qualsiasi ambiente. Le immagini in movimento ti danno la libertà di essere ovunque, se c’è il dispositivo. Ciò mi ha stimolato a lavorare, a fare progetti per YouTube, per iPhone, per il cinema, per il documentario, per le mostre.
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Mi sembra ci sia stata la necessità di dare una definizione e trovare una collocazione anche ad Atlantide (ne avevamo parlato qui), il tuo progetto finora più grande e ambizioso. Per un artista raccontare la realtà secondo il suo punto di vista è la cosa più normale. Questo però mi sembra che nell’ambito cinematografico sia visto non come un pregio, ma come un difetto: pensi che possa averti creato delle difficoltà nella tua carriera?
È sicuramente un problema legato alla globalizzazione, che è stata importante dal punto di vista della connessione, ma ha causato un’omologazione di massa importante anche nella creazione, nei linguaggi. Penso al cinema: c’erano tantissimi mondi all’interno del cinema, ora esiste solo quello di intrattenimento, nient’altro, anche per chi fa cinema d’autore. Per questo siamo qui al PAC, siamo in un luogo sicuro che mi permette di stare lontano da un sistema che obbliga a fare overproduzione usa e getta. Per me Il Capo è forse il film che testimonia che ancora si possono creare cose che durano nel tempo legate all’immagine in movimento.
Ogni tanto mi arrabbio, perché lo trovo veramente incomprensibile. Sono lavori semplicissimi, lo so, perché li faccio vedere a tutti, anche persone che non sono addette ai lavori. L’immagine in movimento è un linguaggio potentissimo, perché tutti lo sanno leggere e in pochi lo sanno scrivere. I migliori a utilizzare questo strumento sono i pubblicitari. È un gran peccato, perché si possono spiegare tantissime cose interessanti senza dover avere una voce fuori campo che ti accompagna per mano, che ti dica e che ti spieghi tutto, le persone ci possono arrivare. Adesso, invece, si tende a spegnere l’interruttore.
Da Ricordi per moderni, ma ancora di più dalla Trilogia del ferro, fino a The Challenge e Whipping Zombie, il tuo sguardo si è allargato dalla Romagna all’Italia, fino a culture lontane dalla nostra. Come sei arrivato a scegliere cosa raccontare, e ad andare a cercare sempre più lontano rispetto a dove vivi?
Questi film e video portano lontano, perché lasciano qualcosa che porta lontano con l’immaginazione, ma in realtà siamo sempre vicino a casa mia. Per The Challenge e Whipping Zombie il ragionamento è stato molto semplice: sono andato nel posto più ricco del pianeta e in quello più povero. Era una specie di parentesi che mi serviva per capire alcune cose: da una parte l’esperienza del terzo mondo, che non avevo mai fatto, e poi l’indagine profonda sul comportamento maschile, che da sempre sto portando avanti, e che poteva arrivare quasi a una conclusione. Non potevo non mettere una bandierina sul paese più ricco, che guarda caso è anche il paese più maschilista, quindi sono andato nel Golfo Persico. Sono due film che stridono, molto diversi, agli antipodi. Però era lì, erano questi i due luoghi lontani. Infatti, subito dopo mi sono detto basta, e sono andato a Venezia.
Ti ho sentito spiegare che arrivi dove devi girare, dalla storia che vuoi raccontare, senza prepararti, per avere uno sguardo privo di pregiudizi e sovrastrutture. Ma come fai a conquistare la fiducia delle persone che entrano nei tuoi film?
Mi ha aiutato molto nascere in Romagna – se fossi nato in Lombardia probabilmente sarebbe stato più faticoso. È la passione: la passione, l’ossessione, la determinazione e l’entusiasmo che riesco a trasmettere. All’inizio, tutti mi dicono no: in vent’anni di produzione, a ogni prima richiesta mi è stato detto no. Poi, alla fine, queste persone sono ancora con me. Non faccio neanche firmare la liberatoria. Ci sentiamo a Natale, sono in contatto con tutti, li porto con me in questa visione della loro realtà da un altro punto di vista, che è molto interessante: è il ruolo dell’artista far vedere punti di vista diversi. Anche gli imprenditori dovrebbero lavorare di più con gli artisti.
Ma soprattutto, un’altra cosa che contraddistingue l’artista è proprio l’occhio del bambino, che non va mai perso e di cui anche tu parlavi.
Sì, è la mia penna ed è molto faticoso mantenerlo – non a livello mentale, ma la società cerca di cancellare questa visione. È difficile non perderlo se vivi e se sei connesso nella società.
Allora, come ultima cosa, ti chiedo: cosa avresti voluto fare da bambino?
Il muratore. Non c’è niente di più lontano, non riesco neanche a piantare un chiodo nel muro col martello.