«Sono vandali, meritano di andare in galera», Matteo Salvini, ministro dei Trasporti e vicepremier. «Queste azioni squadriste devono essere oggetto di condanna unanime», Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. «Scegliere di sporcare opere d’arte o edifici storici per difendere l’ambiente sarebbe come organizzare una cena tra amici a tema Asado argentino per fare battaglie vegane», Guido Crosetto, ministro della Difesa. «Tutti gli atti vandalici messi in atto, anche se dimostrativi, sono inaccettabili e non saranno lasciati impuniti», Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente.
Dichiarazioni del genere sono ormai un habitué da parte degli esponenti del governo Meloni: la lista sarebbe molto più fitta, ma quelle riportate in precedenza descrivono perfettamente l’approccio nei confronti di ragazze e ragazzi che – indipendentemente dai giudizi sui metodi – hanno sempre fatto della non violenza il loro principio cardine. Dalle parole, però, l’esecutivo è spesso passato ai fatti: non solo c’è una mancanza di dialogo con i membri della generazione più esposta agli effetti della crisi climatica, ma anche una criminalizzazione per nulla silenziosa.
Lo conferma il disegno di legge approvato l’11 aprile, che prevede sanzioni da diecimila a quarantamila euro per chi imbratta i beni culturali e sessantamila per chi li distrugge. Leggi simili esistono già all’interno del nostro ordinamento, così come è previsto (da circa un anno) un reato per punire chi imbratta le opere d’arte. Tuttavia, il governo ha deciso di piantare la sua bandierina per restare sulla linea dell’intimidazione, mantenere le promesse fatte all’elettorato e lasciare in un polveroso angolino i temi ambientali.
Come se non bastasse, si è passati anche alle aule dei tribunali. La linea di Roma ha spesso un impatto inevitabile sulle iniziative delle procure della Repubblica e, più in generale, sul mondo della giustizia. La questura di Pavia che chiede la sorveglianza speciale (poi respinta dal tribunale di Milano) a Simone Ficicchia di Ultima Generazione è uno dei tanti esempi. Il 12 maggio, per continuare, si è aperto a Roma il processo per l’imbrattamento con vernice lavabile dell’ingresso del Senato, compiuto da tre esponenti di Ultima Generazione il 2 gennaio. Il giudice ha rinviato la causa al 18 ottobre.
Tra i casi più gravi c’è quello della procura di Padova, che contro Ultima Generazione ha aperto un’indagine per associazione a delinquere finalizzata all’ostacolo della libera circolazione, all’interruzione di pubblico servizio e al deturpamento dei beni culturali. Gli avvisi di garanzia, scrive Repubblica, sono stati inviati a dodici attivisti dell’associazione ambientalista per via di sette episodi avvenuti dall’aprile del 2022.
Stando agli accertamenti degli investigatori del primo dirigente Giovanni De Stavola, le loro proteste contro l’inazione climatica del governo costituiscono blitz coordinati a livello nazionale e dettati da una gerarchia interna. Per questa ragione, la Digos di Padova ha chiesto l’aggravante dell’associazione a delinquere. Una vera e propria inchiesta penale.
Dalla Germania, questa settimana è giunta una notizia molto simile, ma altrettanto inedita: il tribunale di Potsdam ha stabilito che Ultima Generazione ha i connotati di un’organizzazione criminale, in quanto pericolosa «per la sicurezza pubblica» (paragrafo 129 del codice penale tedesco) e operativa in tutto il continente. Questo per specificare che le intimidazioni contro gli attivisti climatici non sono una prerogativa del governo italiano. In Francia, il ministro dell’Interno Gérald Darmanin li ha definiti «ecoterroristi». Tutti i governi, insomma, hanno paura che queste proteste smascherino le lacune delle rispettive politiche ambientali.
Dopo i fatti di Padova, i professionisti italiani del campo forense si sono uniti per un appello in sostegno degli attivisti ambientali italiani, che siano di Ultima Generazione o meno: «Oltre alle normali attività che facciamo nei processi per difendere questi ragazzi, ci sembrava giusto prendere una posizione forte contro le ipotesi investigative e di criminalizzazione dei movimenti ecologisti», racconta a Linkiesta l’avvocato Gilberto Pagani, primo firmatario di un’iniziativa accolta favorevolmente anche da Extinction Rebellion (Xr).
L’appello, inizialmente sottoscritto da più di venti avvocati, recita che «le attività delle procure hanno a volte assunto caratteri fortemente repressivi, con contestazioni di reati spropositate rispetto ai fatti realmente accaduti e con la costruzione talvolta di “indagini-teorema”». Secondo i difensori, le azioni degli attivisti ambientali sono legittime in quanto non violente e dettate da un motivo di interesse pubblico, ossia la protezione del nostro ecosistema e l’irreversibilità della crisi climatica.
Si tratta, scrivono, di «azioni certamente non sproporzionate rispetto al pericolo che tutti vorrebbero fosse scongiurato». Secondo gli avvocati firmatari dell’appello, le proteste degli attivisti ambientali sono «un atto dovuto alla difesa della legalità costituzionale»: la Repubblica, secondo l’articolo 9, deve tutelare «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni».
Secondo l’avvocato Pagani, «gli attivisti vengono di fatto equiparati a mafiosi e criminali, nonostante le loro azioni – a nostro modo di vedere – siano giustificate da uno stato di necessità. Inoltre, la difesa dell’ambiente è un dovere civico sancito dalla costituzione. Di fronte al clamore mediatico non vi è nessun tipo di risposta nel merito ai problemi che vengono sollevati». Vada come vada, la sensazione è che la disputa “governo e procure vs attivisti ambientali” sia appena cominciata. E una presa di posizione da parte del mondo forense potrebbe rendere questa battaglia più equilibrata.