I cantori e le false leggende Tutte le bufale sulla (inesistente) trattativa Stato-Mafia

Al contrario di quanto scrivono alcuni giornali, la Cassazione ha chiarito che non fu mai imbastita una contrattazione né un accordo, andando addirittura oltre il pensiero di Giovanni Fiandaca (allora sbeffeggiato dai soliti noti). Ma il delirio complottista e il tragico caso Loris D’Ambrosio non vanno dimenticati

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È finita come doveva finire, è finita quando non avrebbe dovuto neanche iniziare, eppure anche nel momento del definitivo smascheramento non mancano le mistificazioni sul processo definito “trattativa Stato-Mafia“, farlocco già da titolo. Se n’è scritto tanto, ma non tutto. Dunque sia consentito tornarci sopra, perché nel diritto la verità si trova nei dettagli.

Per cominciare: non è vero che Il 27 Aprile la Corte di Cassazione «ha confermato la sentenza di appello» come hanno scritto sulla Stampa Francesco La Licata e su Repubblica «l’attento Lirio Abbate» (secondo la definizione di Stefano Folli), quest’ultimo uno dei cantori più fervidi della leggenda giudiziaria dei Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Con uno dei suoi collegi più autorevoli, la Suprema Corte ha invece «annullato senza rinvio» la sentenza di appello. Cioè modificato (e non di poco) la sentenza di secondo grado pur mantenendo l’assoluzione del generale Mario Mori e degli altri ufficiali ma per motivi radicalmente diversi da quelli adottati dalla Corte di Appello di Palermo.

La nuova pronuncia, infatti, è stata emessa a seguito di ricorso non solo della procura generale palermitana (comprensibilmente scontenta della precedente assoluzione) ma dei difensori dei due principali imputati,il generale dei Ros Mori (difeso da Basilio Milio e Vittorio Manes) e il capitano Giuseppe De Donno (difeso da Francesco Romito) che pure erano stati riconosciuti innocenti.

Il punto è che la sentenza di secondo grado li aveva assolti con una formula (il fatto non costituisce reato) e delle motivazioni che nella sostanza confermavano l’esistenza di una informale interlocuzione (e non di una trattativa) con la mafia spaccata tra ala trattativista e stragista di cui sarebbe stato informato il ministro di Giustizia dell’epoca, un integerrimo galantuomo, il professor Giovanni Conso, a opera di Mori, non si sa se direttamente o per il tramite dell’allora vice dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato Francesco Di Maggio.

Contrariamente alla romanzesca sentenza della Corte di Assise di Palermo che aveva condannato Mori e gli altri ipotizzando a loro carico un «dolo eventuale», ovvero una teoria giuridica che si applica ai casi totalmente diversi di disastri ambientali o sinistri di vario genere per configurare la responsabilità degli amministratori). Con notevole e apprezzabile sforzo di fantasia giuridica, i giudici di appello avevano ritenuto che i Ros avessero parlato o informato il ministro Conso influendo almeno indirettamente così sulla sua determinazione di revocare il 41 bis ad alcuni mafiosi. Bisogna ricordare che il ministro negò sempre la circostanza, così come di aver mai parlato con Mori e Di Maggio della cosa, beccandosi un avviso di garanzia per falsa testimonianza. Accusa poi caduta.

La Cassazione ha annullato la sentenza come spiega in un comunicato esplicativo post verdetto (segno dei tempi) proprio su questo profilo. Preoccupati del possibile can can che la loro sentenza avrebbe potuto scatenare gli ermellini si sono affrettati a spiegare la loro decisione: di provato c’è che la Mafia minacciò i governi Amato e Ciampi con il ricorso alle stragi ma nessuna trattativa ci fu mai. i carabinieri fecero il loro dovere, così come lo fecero i rappresentanti dello Stato che non si piegarono ai mafiosi. Dunque ci furono le minacce ma i Ros non vi concorsero in alcun modo (da qui la nuova formula di assoluzione «per non aver commesso il fatto». 

Il resto sono tutte fantasticherie, a partire dai famosi colloqui col Guardasigilli e il DAP, mai provati come hanno sostenuto nei motivi di ricorso i difensori e financo il procuratore generale della Cassazione che aveva chiesto un nuovo processo proprio per accertare se vi fossero mai stato. La Cassazione ha deciso che sia inutile inseguire le leggende. Contrariamente a ciò che accadeva nel film del Far West diretti da John Ford, dove in un’aula di giustizia tra mito e realtà vince la storia.

Il netto convincimento dei giudici è dimostrato dalla particolare rarità con cui la Cassazione accoglie ricorsi di imputati già assolti che chiedano una diversa formulazione o motivazione del loro proscioglimento. Nel caso di Mori era tanto evidente l’ingiustizia inferta che la Suprema Corte ha accolto il ricorso e motiverà in modo radicalmente diverso.

Molti ricordano in queste ore il pregevole saggio del professor Giovanni Fiandaca che dieci anni fa, all’avvio dello “storico” processo su Il Foglio, denunciava le falle e le fallacie argomentative dell’accusa guadagnandosi il dileggio di Marco Travaglio e della solita compagnia di giro complottista. Ebbene, se indiscutibile fu il pregio dello scritto e limpido il coraggio dell’autore, sia consentito osservare che proprio la tesi di Fiandaca sull’esercizio del loro dovere da parte di Mori e collaboratori nel parlare coi mafiosi abbia finito per concedere una non necessaria via d’uscita ai fantasiosi ideatori della trattativa (che mai vi fu) e un’inutile coda processuale: quella di immaginare una interlocuzione Stato-Mafia a fin di bene. La Cassazione non ha creduto neanche a questo.

Cosa resta? Un danno grave e molto dolore. A coloro che vivono le assoluzioni come un torto alle vittime andrebbe ricordato chi per questa vicenda ha pagato un prezzo altissimo. Si chiamava Loris D’Ambrosio, magistrato e consigliere giuridico dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Fu investito al pari del presidente di sospetti e maldicenze per avere parlato con uno degli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, poi assolto, nel delirio complottista che portò addirittura ad ascoltare per la prima volta la massima carica dello Stato come teste in un processo dopo un accesso conflitto costituzionale sulla pretesa dei procuratori palermitani di tenere custodite intercettazioni di Napolitano e Mancino. Per fortuna non vennero collegati via video Totò Riina e Bernardo Provenzano con le stanze del Quirinale per godersi lo spettacolo.

D’Ambrosio fu stroncato dall’angoscia di sentirsi sospettato dentro un meccanismo inquisitorio che distruggeva vite e temeva travolgesse anche lui come denunciò lo stesso presidente ai suoi funerali. Ovviamente non ci sarà nessuna commissione d’inchiesta o uno straccio di procuratore che avrà voglia di indagare sul gravissimo danno arrecato alle istituzioni e alle persone. Molto meglio parlare di casi di cronaca nera di 40 anni fa.

Forse è anche inutile lamentarsi del solito circolo di «cazzengers» dell’informazione (secondo una felice espressione di Maurizio Crozza) che continuerà imperterrito a spargere altre fole complottiste, spacciandole per giornalismo d’inchiesta e non per ciò’ che rappresenta oggi l’informazione farlocca: un grave problema della democrazia attuale. Specie in Italia, dove purtroppo non ci sono gli equivalenti del Financial Times o del Washington Post, ma un’informazione in agonia.

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