In una qualsiasi decorosa sede di dibattito pubblico, uno come il professor Carlo Rovelli dovrebbe essere considerato semplicemente un indesiderabile: e l’ipotesi di escluderlo non si porrebbe neppure semplicemente perché invitarlo non sarebbe nemmeno un’ipotesi.
Nella nostra temperie morale e civile capovolta, invece, le vergognose enormità negazioniste e collaborazioniste messe insieme da Rovelli passano alternativamente per l’irrinunciabile contributo del mondo buono che resiste all’avanzata soverchiante di quello cattivo o per le stramberie dopotutto perdonabili di una star un po’ sognante ed eccessiva ma indiscutibilmente rispettabile.
Che si tratti di penose rimasticature di un terzomondismo inadeguato persino in bocca a un sopravvissuto da distacco sindacale, della snocciolatura in vernacolo arcobalen-castrista delle pluridecennali minchiate sul pianeta assediato dalla regola armata del profitto neoliberista, insomma della più ignobile fuffa equamente fatta propria e propinata a destra e a manca da quelli che ripudiano le democrazie occidentali perché non sono altrettanti paradisi ma non trovano il tempo di occuparsi degli inferni circostanti, che dopotutto hanno il merito di opporsi alle false promesse di libertà del mondo ricco e armato fino ai denti (altro che il profilo pacifico e antimilitarista della Cina o del Pakistan, per capirsi), ecco, tutto questo sarebbe abbastanza per rendere inconfigurabile la revoca di un qualsiasi invito appunto perché inconfigurabile sarebbe la causa della revoca, e cioè l’invito.
Solo che non è abbastanza, nel senso che quella retorica strapaesan-venezuelana non piomba in clima di normalità sulla platea di un centro sociale: è invece distribuita dopo risonanti prime pagine e allegri comizi in mondovisione sulla pelle e a insulto di un popolo massacrato, torturato, stuprato, deportato, per rispetto del quale uno come il professor Rovelli dovrebbe essere trattato come detto, come un indesiderabile, appunto, salvo credere che sul diritto degli ucraini di difendersi e di respingere l’aggressore faccia stato, nell’Europa al loro fianco, non l’impegno degli europei ma il disimpegno negazionista del pacifismo che deplora l’escalation: quella di cui si parla se la resistenza ucraina riconquista una città, non se l’aggressore russo ne rade al suolo dieci.
Ma a questo punto che ci vada pure a Francoforte o dove cavolo è. E che ripeta lì una per una le stronzate cui si è abbandonato con penoso sussiego grazie agli scriteriati che glielo hanno permesso. Opera meritoria sarebbe tradurre in ucraino il suo intervento, e farne tante copie per quanti uomini, donne, vecchi e bambini ucraini saranno stati ammazzati «per colpa dell’occidente» dal 24 febbraio del 2022 a quel giorno. E poi sentire – perché ci vuole il contraddittorio, no? – che cosa ne pensano laggiù.