Le tecnologie che oggi rendono possibile il riciclo dei pannelli fotovoltaici scontano un inevitabile ritardo. La potenza fotovoltaica installata nell’Unione europea è cresciuta a ondate soprattutto a partire dal 2008 e solo negli ultimissimi anni ha preso una china ascendente apparentemente (e auspicabilmente) inarrestabile.
Tenendo conto che la vita utile di un pannello solare è stimata tra i venticinque e i trent’anni, però, va da sé che «non si è ancora raggiunta un’esigenza di trattamento, in termini di volumi, che invece caratterizza altre filiere: questo ha un po’ ritardato la ricerca. Ma non significa che ad oggi il modulo fotovoltaico non possa essere trattato e recuperato, anche raggiungendo performance significative».
A parlare è Luigi De Rocchi, ReD Manager di Cobat, piattaforma multiconsortile e multifiliera italiana che si occupa della gestione del fine vita dei pannelli fotovoltaici. Costituito nel 1988 come consorzio obbligatorio per occuparsi in maniera specifica del fine vita delle batterie al piombo, oggi Cobat recupera e ricicla diverse tipologie di prodotti a fine vita con consorzi dedicati: pile e accumulatori, pneumatici, materiali in fibra di vetro e in parte di carbonio (esigenza che diventerà attuale soprattutto quando verranno dismessi i primi parchi eolici installati), materiale tessile e rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
In quest’ultimo consorzio, Cobat RAEE, rientrano appunto i moduli fotovoltaici. A inserirli nella categoria dei RAEE, e dunque a obbligare produttori o proprietari a smaltirli come tali, è stata la normativa europea del 2012, recepita in Italia con il decreto legislativo 49/2014.
Riciclare un pannello fotovoltaico: quali processi si usano
«In Italia, come negli altri Paesi europei per effetto della direttiva 2012/19/UE, è previsto che il modulo fotovoltaico debba essere raccolto e indirizzato a corretto recupero», spiega De Rocchi. «È necessario recuperare l’ottantacinque per cento in peso post trattamento. Perché ottantacinque e non novanta o cento per cento? Perché alcune frazioni risultano essere difficilmente recuperabili dal punto di vista della materia, come ad esempio le componenti plastiche».
Il principale problema alla base del riciclo dei pannelli fotovoltaici è che questi non sono attualmente progettati e realizzati in un’ottica di economia circolare. Questo rende difficile (ovvero tecnicamente molto complesso e costoso) un riciclo al cento per cento: ad esempio, è spesso impossibile recuperare l’intera cella fotovoltaica, che potrebbe in teoria essere riutilizzata in un altro pannello.
Inoltre, i pannelli attualmente usati in giro per il mondo differiscono per generazione, caratteristiche, tecnologia e marchio, e per questo non può esistere un unico processo standard di recupero e riciclo. Ci sono di fatto tre tipologie di trattamento per il recupero e riciclo dei pannelli fotovoltaici: la maggior parte è di tipo meccanico, ma sono in fase sperimentale anche processi termici e chimici.
Il primo passo: il recupero di alluminio e vetro
Il più comune è il processo meccanico e quello messo a punto da Cobat – e usato nei suoi tre impianti in Piemonte, Marche e Puglia – consente di recuperare il novanta-novantaquattro per cento del pannello solare in peso. «Il modulo fotovoltaico è una sorta di sandwich a strati.
Partendo dal basso si trova un primo strato solitamente di materiale plastico (backsheet), a cui segue lo strato delle celle fotovoltaiche al silicio con le connessioni (a sua volta incapsulato tra due sottili strati di altro materiale plastico), per terminare con lo strato di vetro. Il sandwich è poi inscatolato sui bordi da una cornice di alluminio. C’è poi una scatola di giunzione, che contiene la parte elettrica ed elettronica che connette il modulo alla rete», spiega De Rocchi. «Nella nostra tecnologia, per prima cosa i cavi vengono disconnessi e insieme alla scatola di giunzione procedono verso la linea di smaltimento dedicata alle apparecchiature elettriche ed elettroniche».
Il modulo viene poi posizionato su un nastro trasportatore, dove il bordo di allumino viene meccanicamente sganciato tramite un apposito tool. «L’alluminio da solo costituisce il quindici-diciotto per cento del peso totale del pannello e può essere rivenduto tale e quale». A questo punto il modulo fotovoltaico viene capovolto e quattro cilindri rotanti, con denti di forma e dimensioni differenti, abradono la parte di vetro, che da sola costituisce oltre il cinquanta percento del modulo fotovoltaico.
«Il vetro usato nei pannelli è di ottima qualità, perché deve consentire la massima trasparenza per ottimizzare i raggi del sole, e questa qualità si mantiene anche dopo. Il vetro, che tramite questo processo viene recuperato per oltre il novantacinque-novantasette per cento, è pulito, trasparente e può essere rivenduto così com’è in vetreria».
Cosa succede a silicio, argento, rame e altri elementi
Rispetto alla quantità di vetro e alluminio, la parte rimanente del modulo fotovoltaico è meno significativa dal punto di vista del peso, ma contiene materiali che possono essere ulteriormente valorizzati. «Il resto del modulo fotovoltaico viene sottoposto a un processo di macinazione che consente di avere delle frazioni minute, che vengono poi separate in base alla granulometria e alla composizione», prosegue De Rocchi.
«Nella parte più grossolana troviamo ancora materiale valorizzabile, ad esempio sotto forma di rame o alluminio, che viene setacciato e sottoposto a ulteriori processi di recupero». L’intero processo appena descritto, che dura in tutto alcuni minuti, è pensato per i moduli fotovoltaici al silicio monocristallino e policristallino, che rappresentano circa il novanta per cento del mercato.
Una volta terminato questo processo di riciclo, dunque, cosa rimane? Una frazione minimale molto fine, una sorta di borotalco all’interno del quale si trovano silicio, metallo, residui vetrosi estremamente ridotti… «Sono in corso degli studi per capire se e come è possibile valorizzare anche quest’ultima parte residuale», afferma De Rocchi. «In alcuni casi c’è la presenza di argento in quantità non trascurabili; quindi, potrebbe avere senso investire per recuperarlo. Siamo però ancora in una fase di test e la percentuale di argento che riscontriamo è estremamente fluttuante: dipende dalla generazione di modulo fotovoltaico che andiamo a trattare, dalla tipologia, dalla marca».
Con questo approccio meccanico recuperare la cella nella sua integrità oppure prelevare in modo isolato il silicio o l’argento, senza triturarli, non è possibile né per ora conveniente. «Qualcuno ci ha provato, si tratta però di tecnologie sperimentali. Non abbiamo ancora delle tecnologie a livello commerciale. A oggi le celle fotovoltaiche vengono purtroppo prodotte non per essere rigenerate e al momento è quindi difficile inserire il silicio che recuperiamo, anche se si tratta di una piccola quantità, in una circolarità. Non dico che non sarà mai possibile: probabilmente bisognerà ragionare in termini di ecodesign, ovvero progettare e realizzare moduli con celle facilmente disassemblabili e che possano essere riusate in second life su altri moduli».
Gli altri processi di recupero
Altri trattamenti meccanici provano a sfruttare modalità diverse. «Il modulo fotovoltaico è una specie di wafer, dunque un’idea è quella di utilizzare un tool come se fosse un coltello per tagliare il modulo fotovoltaico, separando il vetro dal resto. Per farlo serve un sistema che rammollisca l’incollaggio (uno dei metodi più utilizzati è mediante i raggi infrarossi) e permetta il passaggio di questo tool. È una tecnologia che abbiamo visto usare in Giappone e in altri Paesi europei, ma che è ancora in fase di sperimentazione: i parametri, soprattutto di rammollimento, cambiano completamente in base allo spessore e al produttore del modulo», spiega De Rocchi.
Oltre ai trattamenti meccanici, poi, ci sono quelli chimici: una tecnologia, anch’essa ancora sperimentale, che in sostanza ricorre a bagni acidi «abbastanza costosi e complicati». La terza opzione è il trattamento termico. «Si manda il modulo fotovoltaico in un apposito forno per poter bruciare la componente plastica all’interno. Il vantaggio è che si elimina l’elemento inquinante della plastica, ma la parte vetrosa e metallica devono poi essere separate».
Un impianto a Mestre sviluppato dal Gruppo Innovatec insieme a Veritas SpA sta sperimentando proprio questa tecnologia, finanziato anche dal Pnrr. Questo trattamento consente in effetti di recuperare il vetro al cento per cento, che però deve essere successivamente pulito per ottenerne la massima purezza. L’altra inaspettata criticità di questa tecnologia è che prevede un forno: «In Italia, quando si parla di sviluppare una linea di trattamento che utilizza un processo termico, è sempre piuttosto difficile ricevere l’autorizzazione per questo genere di impianti, anche sperimentali».
Tutte queste tecnologie, già in uso o potenziali, sono un patrimonio condiviso. Il WEEE Forum, che riunisce tutti i sistemi di raccolta dei RAEE sparsi per l’Europa, ha l’obiettivo esplicito di fare network e di mettere a sistema conoscenze, processi e procedure diverse. Insomma, al momento si sta raggiungendo probabilmente il migliore risultato possibile in termini di recupero, ma non per questo non c’è margine per fare ricerca e migliorare ulteriormente i processi. Tanto più che questa esigenza diventerà di centrale attualità nel giro di pochi anni. «Stando a uno studio svolto internamente per calcolare i tempi di ritorno dei moduli fotovoltaici, considerando l’obsolescenza intorno ai 25 anni, ci aspettiamo tra il 2025 e il 2026 l’arrivo di circa ventimila tonnellate di moduli a fine vita in Italia», conclude De Rocchi. «Se dovessero esserci politiche di incentivazione del fotovoltaico per favorire lo sviluppo delle rinnovabili, però, potrebbe essere che alcuni impianti che potrebbero funzionare più a lungo vengano dismessi anzitempo per installare moduli più performanti. Questo anticiperebbe il tema della gestione del fine vita di una grande quantità di moduli fotovoltaici».