Vaccini o cobaltoAccumuliamo in fretta materie critiche solo quando ci muoviamo a livello europeo

Di fronte alle tensioni tra Stati Uniti e Cina, per essere davvero autonoma l’Ue deve recuperare il ritardo su tecnologia e materie prime. Servono accordi commerciali, investimenti e capacità politica

Una distesa di pile
Foto di Vardan Papikyan su Unsplash

Se si guarda al panorama energetico dell’Unione europea, si vedono, a occhio nudo, due notizie. Al solito, una buona e una cattiva.

Quella buona è che, ad oggi, l’Ue è titolare del più poderoso impegno di investimenti nelle energie rinnovabili del mondo (circa mille miliardi da qui al 2030), il che va bene sia per l’ambiente e per il clima, per le ragioni che sappiamo, sia per la politica energetica, perché potrebbe rendere, per la prima volta da circa un secolo, l’Europa energeticamente autonoma.

La notizia cattiva però è che per farla davvero questa transizione energetica, che è buona per il clima e per la politica, servono due cose: materie prime e tecnologia; e l’Europa non ha né le une né le altre.

Al momento, sia le terre rare, sia le tecnologie che da esse derivano, sono monopolio quasi assoluto della Cina.

Il che rischia di portare l’Unione a trovarsi in una situazione complessa e spinosa, nella quale, dalla dipendenza dal gas russo, si potrebbe passare a quella dalle materie prime e tecnologie cinesi, il che, in questo momento storico, sarebbe faccenda politicamente non meno complicata.

Il fatto che, negli ultimi anni l’Ue non abbia mai pensato seriamente all’energia come a un suo problema, ma come a qualcosa che ci sarebbe sempre stato, quasi in modo infinito, purché ci fossero buoni accordi commerciali, ha fatto sì che oggi ci troviamo a un bivio tra due potenziali culi di sacco: da un lato il ritorno all’uso di gas russo, strada che appare, in questo momento, completamente impercorribile.

Dall’altro la corsa alle rinnovabili, strada attualmente aperta, ma sulla quale pende la spada di Damocle del continuo inasprirsi delle relazioni tra Stati Uniti e Cina.

L’idea che, nell’ipotesi in cui si arrivasse a uno scontro frontale tra le due superpotenze, l’Ue possa prendere le parti della Cina appare piuttosto lunare. E anche la via macroniana, di una «neutralità» europea, appare piuttosto improbabile.

Dunque in questo scenario di dipendenza, l’Ue ha due cose da fare: lavorare per scongiurare lo scontro tra Usa e Cina e, nel frattempo, accaparrarsi più materie prime possibili, di modo che, se le cose dovessero prendere una brutta piega, non ci si ritrovi senza gas russo e senza tecnologie per le rinnovabili, in uno scenario in cui saremmo di nuovo dipendenti dal Gnl americano (che comunque non basta e comunque inquina) o dalle materie prime grezze che arrivano dall’Africa e dall’Australia (che comunque non abbiamo tecnologia e competenze per trasformare in pannelli solari o pale eoliche).

La crisi Covid, un paio di anni fa, però ci ha insegnato con chiarezza una cosa, cioè che quando c’è da accumulare grandi quantità (di vaccini o di cobalto, poco cambia) e da farlo in fretta, il modo migliore per farlo è muoversi a livello europeo. La forza commerciale e l’abilità politica di un colosso da quattrocento milioni di persone, che rappresenta la terza economia del mondo, è evidentemente superiore a quella di ventisette Paesi presi singolarmente.

«La duplice sfida di portare sul mercato le quantità molto maggiori di terre rare necessarie per la transizione verde, affrontando al contempo la mancanza di resilienza nei mercati globali delle materie prime, non può essere affrontata a livello nazionale – scrive il think tank Bruegel in un suo recente report –. L’Ue dovrebbe sostenere un commercio, contesto politico e investimenti, concreti all’estero che diversifichino le filiere non solo per il proprio mercato interno. Dato che tutte le economie impegnate nel percorso verso la decarbonizzazione affrontano la stessa sfida di investimento, l’obiettivo dovrebbe essere lo sviluppo di mercati globali delle materie prime liquidi e diversificati, proprio come i mercati esistenti per rame e alluminio, metalli anch’essi centrali per la transizione verde».

Dunque, di nuovo, l’Ue si trova di fronte a un bivio. Solo che questa volta non è un bivio tra due cul de sac, ma tra due strade, una sola delle quali porta in un vicolo cieco. L’altra, invece, è aperta e funziona.

Quella che non porta da nessuna parte, è fatta di divisione politica, ed economica, è fatta di speranza per il meglio senza attrezzarsi al peggio, è fatta di convinzione che, alla fine, tra Usa e Cina non succederà niente di irreparabile e che, comunque, male che vada l’Ue potrà far da sola, puntando forte sui giacimenti urbani, come previsto dal CRM Act proposto dalla Commissione (che ad oggi possono coprire circa il dieci per cento del nostro fabbisogno di materie prime) e sulla tecnologia che, in fondo, siamo fortissimi a imparare.

L’altra strada, quella che invece porta dritto all’autonomia energetica (e di conseguenza politica ed economica) è fatta di accordi commerciali su scala più ampia possibile; è fatta di investimenti in tecnologia; è fatta di capacità politica. Tre cose che, a ben guardare, costituiscono l’ossatura e la ragion d’essere dell’Ue, più o meno da prima che nascesse. E che sono le stesse che le consentiranno di continuare a esistere.

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