C’è grande attesa in Turchia, e altrettanta attenzione a livello internazionale, per le elezioni presidenziali e parlamentari del 14 maggio. Nell’anno del centenario della Repubblica i cittadini turchi sono chiamati a esprimersi in una tornata elettorale che appare per molti versi cruciale per il futuro del paese. La scelta è tra la continuità, rappresentata dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e dal suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) da vent’anni al potere, e il cambiamento promesso dalla eterogenea coalizione dei partiti di opposizione. Anche questa volta il voto sembra configurarsi come un referendum nei confronti di Erdoğan, la cui figura carismatica ha ininterrottamente dominato, e forgiato, la scena politica turca fin dalla sua prima nomina a capo del governo nel marzo del 2003. Nel ventennio dell’AKP la Turchia ha conosciuto importanti trasformazioni sul piano politico, socioeconomico e culturale. Tra i cambiamenti, il più significativo è stato il passaggio nel 2018 dal parlamentarismo a un (super)presidenzialismo, che ha di fatto istituzionalizzato il “one man rule” da tempo vigente nel paese.
L’economia è il banco di prova
In un contesto politico che negli anni si è fortemente polarizzato, il consenso nei confronti del leader turco si è progressivamente eroso. Proprio l’economia, su cui hanno pesato tanto gli effetti della pandemia di Covid-19 quanto le ripercussioni della guerra in Ucraina e da ultimo le conseguenze del sisma di inizio febbraio, rappresenta una delle sfide principali per Erdoğan. In passato, le difficoltà economiche, dopo la grave crisi valutaria del 2018 e la recessione che ne era seguita, avevano influito sulle scelte dell’elettorato, facendo registrare una significativa battuta d’arresto per l’AKP con la sconfitta nelle due principali città del paese, Istanbul e Ankara, alle amministrative del 2019. Una ferita che non si è rimarginata facilmente: all’epoca, infatti, Erdoğan aveva dichiarato che perdere Istanbul, cuore economico e finanziario del paese, avrebbe significato perdere l’intera Turchia. Oggi come allora il fattore economico, che continua a essere il principale termometro con cui si misura il gradimento nei confronti del presidente e del suo partito, potrebbe contribuire a influenzare, stavolta in maniera ancora più significativa, l’orientamento degli elettori. Non è un caso che l’apprezzamento per l’operato del presidente sia diminuito negli ultimi due anni contestualmente al peggioramento della situazione interna. Stando ai sondaggi, il consenso per Erdoğan è rimasto ben al di sotto del 50 percento negli ultimi due anni, con una risalita al 45 percento alla fine del 2022. L’accresciuto prestigio sul piano internazionale, grazie alla mediazione nel conflitto tra Russia e Ucraina, e la normalizzazione dei rapporti diplomatici con i vicini mediorientali, soprattutto con le ricche monarchie del Golfo che non hanno mancato di fornire sostegno finanziario, ha contribuito ad accrescere i consensi per il presidente anche nel paese.
Inflazione e deprezzamento della lira
Tuttavia, è principalmente sulla performance economica che continua a giocarsi la partita più importante per Erdoğan. Nell’ultimo anno l’impennata dell’inflazione e il deprezzamento della lira hanno avuto pesanti ripercussioni sul piano interno, facendo registrare una significativa perdita di potere d’acquisto soprattutto dei ceti medio-bassi. Nel 2022 il tasso medio di inflazione è stato del 72,3 percento – con un picco di 85,5 percento a ottobre – contro il 19,6 percento del 2021. Dopo mesi di impennata solo a dicembre si è registrato un calo dei prezzi al consumo, con un tasso del 64,3 percento, dovuto principalmente alla riduzione dei prezzi del petrolio, dalle cui importazioni la Turchia dipende ampiamente per soddisfare il proprio fabbisogno interno. La non convenzionale politica monetaria – basata sulla considerazione che bassi tassi contribuiscano a contrastare l’inflazione – perseguita dal presidente turco, la cui influenza sulla Banca centrale turca si è accresciuta negli anni, è la ragione principale di questa impennata. A partire da agosto 2022, l’istituzione monetaria turca ha operato una serie di tagli che hanno progressivamente ridotto il tasso di interesse, ribassato all’8,5 percento a metà febbraio. Ciò si spiega alla luce del fatto che, nonostante tutto, l’obiettivo del governo rimane quello di stimolare la crescita dell’economia attraverso politiche espansive. Secondo l’Istituto di statistica turco, la Turchia ha conosciuto una crescita del 5,6 percento nel 2022, un dato superiore al 5 percento previsto dal Fondo monetario internazionale (FMI) lo scorso ottobre, ma inferiore alle percentuali dei primi due trimestri dell’anno, rispettivamente 7,6 e 7,8 percento. Stimolo principale della crescita (soprattutto nei primi sei mesi del 2022) è stato l’aumento della spesa per i consumi, +19,7 percento sull’intero anno, con un rallentamento nell’ultimo trimestre. Ciò si spiega anche alla luce delle misure di sostegno messe in campo dal governo – tra cui l’aumento del salario minimo, degli stipendi del settore pubblico e delle pensioni – unite al progressivo taglio dei tassi di interesse (proprio per favorire la crescita) in una fase in cui invece molti paesi sono andati in direzione opposta per contrastare l’inflazione provocata delle ricadute sui mercati internazionali della guerra in Ucraina.
L’impatto del sisma
In questo contesto, il sisma – che ha devastato dieci province dell’Anatolia meridionale al confine con la Siria provocando la più grave crisi umanitaria della storia della Turchia moderna – ha aggiunto forti criticità a una situazione economica già fragile. Mentre resta ancora da vedere quale sarà l’impatto effettivo del terremoto sull’economia turca, in un recente rapporto il governo di Ankara ne ha stimato i costi economici a 103,6 miliardi di dollari, ovvero circa il 9 percento del Pil turco per il 2023. Sono in molti a ritenere che il sisma – così come avvenuto nelle elezioni del 2002, le prime dopo il terremoto del 1999, che consacrarono la vittoria di misura dell’AKP – possa anche in questo caso dare una forte scossa sul piano politico al paese. Ma in questa fase i giochi rimangono ancora aperti. Non solo perché il presidente ha in mano più carte dei suoi avversari, ma anche perché l’eterogeneità della coalizione d’opposizione potrebbe non dare all’elettorato quelle rassicurazioni di cui ha bisogno in una congiuntura difficile per il paese. Il ritorno al parlamentarismo e la ferma opposizione nei confronti di Erdoğan sono di fatto il collante principale di un fronte che mette insieme formazioni politiche molto diverse tra di loro (dagli eredi del kemalismo ai nazionalisti e ai fuoriusciti dell’AKP), e il timore è che i particolarismi possano poi prevalere a discapito della governabilità e della stabilità interna. A oggi, dunque, la partita elettorale tra Erdoğan e il suo principale sfidante Kemal Kılıçdarog˘lu – il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) dietro cui si è unito il fronte delle opposizioni – sembra ancora da giocare. Ago della bilancia, anche questa volta, potrebbe essere il voto dei curdi (circa il 20 percento della popolazione) che già da tempo non sono più base di consenso del presidente turco.