Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.
Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura «i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita» – decidiamo che il problema è la seconda.
Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente «cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia». Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante.
Il punto non è cosa diavolo farà tua figlia senza che tu te ne accorga se tu sei così stolido che ti sembra un’anomalia l’undicenne su Instagram. Il punto è che la domanda non è cosa ci faccia un’undicenne su Instagram: la domanda è cosa ci faccia tu, cinquantenne, su Instagram.
Tu che ogni giorno ci racconti che dai tuoi figli impari ogni giorno, da quei figli che interrompono ogni riunione, ogni conversazione, ogni cena tra adulti perché, in un’epoca in cui cianciamo di burnout e guai al lavoro che osi pretendere la nostra attenzione un minuto dopo l’orario d’ufficio, se il puccettone videochiama si molla tutto.
Elenco, non esaustivo e non di fantasia, di videochiamate in seguito alle quali ho visto correre genitori via da impegni adulti per salvare l’equilibrio psichico puccettonico messo a grave rischio.
«Mi avete lasciato in casa solo penne nere, io scrivo solo con penne blu». Madre e padre si passano il telefono con uno sguardo da rifugio antiaereo, poi uno dei due corre a casa abbandonando il mojito che il cameriere gli ha appena poggiato sul tavolo, cinque euro ogni foglia di menta. Scusate, ma dove la comprate una penna a quest’ora. No, ma a casa ci sono, è che lui s’infastidisce a cercarle.
«Mi hai comprato il libro sbagliato». La puccettona ha dato ordine alla madre di comprarle non so quale storia analfabeta che desiderava leggere, le ha dettato un titolo e la tapina ha eseguito, ma il titolo era sbagliato, e quindi comunque l’errore è dell’acquirente pure se si limitava a eseguire ordini. La tapina madre interrompe la riunione che dovrebbe presiedere per ovviare a questo increscioso errore, giacché sappiamo tutti che i desideri filiali funzionano come diceva Carrie Fisher: instant gratification takes too long.
«Devi venirci a prendere ma non devi parlare». Maschio altrimenti alfa, fino alla riproduzione considerato carismatico e brillante, abbandona il tavolo allo stellato che aveva prenotato tre mesi prima e di cui aveva per tre mesi studiato il menu perché figlia pretende di venire trasbordata con le amiche con cui sta festeggiando un compleanno da bar improvvisamente divenuto non di loro gradimento ad altro locale; l’adulto non è autorizzato a rivolger loro la parola per non rovinare l’atmosfera, né può dirle di chiamare Uber perché sennò poi la piccina si fa venire il deficit di accudimento.
Eccetera.
L’età non è importante, giacché sappiamo tutti che ormai l’adolescenza è un ergastolo ostativo, una pena che non finisce mai, uno stato anagrafico che copre anche la senilità, senilità durante la quale facciamo le smorfie alla telecamera del telefono salvo poi trasecolare se le fanno le undicenni, che almeno sarebbero giustificate a esser sceme.
La laureanda che frigna perché il padre osa preferirle la partita è figlia del suo tempo, e d’un padre che le avrà detto che da lei impara qualcosa ogni giorno, invece di dirle «ringrazia che ti pago gli studi». Figlia d’un tempo e d’una società che da tre anni le dicono che nessuna è mai stata traumatizzata quanto lei che ha fatto lezione su Zoom: cara grazia se non finisce ad accoltellare il relatore.
Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore.
L’altro giorno, in un’intervista alla Stampa, Paolo Crepet ha detto che «i genitori di oggi rinunciano a educare i propri figli non perché vanno in miniera, ma a giocare a padel» (aggiungerei: chiedono ai figli di andarli a guardare giocare a padel, e sono tutti fieri se finiscono sul TikTok filiale; pur non avendo mai giocato a padel né figliato, sento di dovermi scusare a nome d’una generazione di scemi: non so cosa sia andato storto, forse le radiazioni di Chernobyl ci hanno interrotto la crescita).
Ha detto anche: «I disturbi mentali sono comunicazione: se parlo di depressione, allora avrò moltissimi depressi. […] Sentiamo in continuazione dire che gli studenti universitari sono stressati. Ma di cosa, vorrei sapere. Non ce la fanno più. Ma di che, di studiare? Quello devono fare, quello è il loro mestiere. Il problema è che molti gli danno pure retta. Così il rischio è di crescere migliaia di pirla, pronti ad andare a piagnucolare da schiere di psicoterapeuti che sono felici di avere un cliente in più». Ecco. La principale ragione per cui sono felice di aver installato TikTok è che è pieno di conferenze in cui Crepet dice queste cose, oasi di sanità in un mondo impazzito che chiede il bonus psicologo e sostiene senza mettersi a ridere che i giovani si suicidano perché l’alberghiero di Massa Lubrense è troppo performativo.
Ci sono quelli che raccontano l’università italiana, un posto in cui anche una pianta grassa può prendere 30, come fosse il Giappone, e poi c’è Crepet. «Tra le mail ricevute negli ultimi tempi ricordo quella di una professoressa. Mi ha scritto che i suoi studenti, otto volte su dieci, quando devono compilare il campo data e ora le chiedono che giorno è. Il registro elettronico, la chat dei genitori, la possibilità di geolocalizzare i figli sono potentissimi strumenti di deresponsabilizzazione. Ma poi cosa ci aspettiamo? Che a 25 anni vadano in Argentina in cerca di fortuna? Restano a casa, il loro futuro è mettere l’appartamento del nonno in affitto su booking, che per quello non servono competenze».
Ieri parlavo di Succession con amici, di come le seconde generazioni di ricchi siano sempre imbecilli: non ti sei mai dovuto guadagnare niente, come ti saresti potuto temprare. A un certo punto di queste conversazioni c’è sempre qualcuno che dice: eh ma Gianni Agnelli. Che in effetti era una terza generazione. Però una terza generazione che ha fatto una guerra mondiale. Ho idea che, per temprare il carattere, abbia funzionato più che guardare in tv Chernobyl, o le Torri gemelle, o la pandemia.