Al più rilevante intellettuale romano di questo secolo non piace “Succession”. Stavamo parlando di Tom e Greg, io dicevo che erano un innesto di Balzac dentro a Shakespeare, e lui ha detto qualcosa tipo: non ti permettere.
Ci ripenso da settimane, perché credo che la differenza tra chi è completamente imbecille e chi no sia che solo i completamente imbecilli, se uno più colto di loro dice che un prodotto culturale è scarso, liquidano il giudizio come inclinazioni individuali, come insondabili preferenze personali, come dei-gusti-non-si-discute e altri fratindovinismi.
Ci ripenso da settimane perché l’intellettuale romano ha rotto il plebiscito su cui qualunque persona anche solo istruita si era tacitamente accordata negli ultimi cinque anni (quattro stagioni, e una sosta da pandemia): “Succession” è la cosa più bella che ci sia capitato di vedere.
A volte qualcuno obiettava, ma erano sempre e solo sceneggiatori frustrati cui nessuno avrebbe dato quei budget. Per il resto era tutt’un riguardare con gli occhi a cuore le puntate vecchie, e dire vedi che geni, il padre alla fine dice «vi voglio bene ma voi non siete gente seria» come il figlio diceva all’inizio, vedi che grande disegno nel far dire a Kendall «tutto questo lo faccio per i miei figli» come già aveva detto Logan stagioni prima.
Era tutt’un prendere banalità qualunque (chi non dice «tutto quel che faccio, lo faccio per i miei figli»? «Mogli e buoi» sarebbe stata una battuta più originale e ficcante) e usarle per provare la linea politica che avevamo deciso di tenere a dispetto della realtà: Jesse Armstrong è un genio, e tutto ciò che non torna ha ragione di non tornare.
Ecco, parliamo di ciò che non torna. Quando è uscito il film di Nanni Moretti, l’ultima stagione di “Succession” era a metà, e io ho pensato: meno male che Nanni c’è. Meno male che, nel secolo della morte della critica culturale, mi fornisce lui le parole per dire ciò che penso ogni volta che in “Succession” compare una pistola che poi non spara.
La gente, dice a un certo punto del “Sol dell’avvenire” Nanni, cambia solo al cinema, nella realtà no. Le pistole, nella realtà e quindi anche in una drammaturgia che non può certo essere quella di Cechov in anni in cui abbiamo tutti una telecamera in tasca, spesso non sparano.
L’articolo più stupido che abbia letto su “Succession” era la settimana scorsa su Time, e ipotizzava che alla fine avrebbe trionfato Greg. Conosco le regole del mondo, e so che un articolo con un’ipotesi così assurda lo fai come esercizio di stile, mica perché ci credi anche per un secondo. Ma era interessante l’ottusità con cui era costruita l’ipotesi. Il nome di Greg, ci ricordava l’articolista, era scarabocchiato a margine degli appunti che forse erano il testamento di Logan: in “Succession” una cosa così mica è casuale.
In “Succession” una cosa così è rigorosamente casuale. Non averlo capito significa non averlo guardato con attenzione (o significa che la critica culturale è così morta che per quanto le cose vengano guardate con attenzione poi vengono sintetizzate con gli strumenti d’un ripetente di seconda media). In quegli appunti lì c’era anche il nome di Kendall forse cancellato o forse sottolineato: significava che era l’erede designato o che era la pecora nera disconosciuta?
Nella divisione del mondo di cui sopra, i completamente imbecilli hanno pensato che poi quell’ambiguità sarebbe stata sciolta, che qualcuno (la fata dei dentini? Il fantasma dei Logan passati?) ci avrebbe entro la fine svelato cosa voleva il defunto papà, a chi voleva bene davvero (a nessuno, pulcini: Logan Roy, come tutti i ricchi di prima generazione, era consapevole che senza di lui tutto sarebbe andato a puttane, e quindi dell’azienda dopo morto non gl’importava nulla, chiunque l’avesse sostituito non sarebbe stato all’altezza).
Gli altri, quelli che “Succession” avevano imparato a conoscerlo, sapevano che nessun cerchio sarebbe stato chiuso, perché i rapporti di forza dentro “Succession” spesso procedono a casaccio, e che noialtri si sia deciso che è giusto così perché subiamo l’egemonia culturale di Jesse Armstrong, o perché l’illogicità dei suoi personaggi è grandemente convincente, non è molto importante: conta il risultato, che riesce a essere insoddisfacente per tutti (tranne, forse, per lo svedese). (Due file ordinate: quelli ai quali “lo svedese” evoca ancora “Pastorale americana”, e quelli per i quali ormai sarà per sempre un miliardario nevrotico che manda sacche di sangue alle ex amanti e si fa spiare come un coglione da Greg col traduttore automatico).
“Succession” ha creato varie tifoserie, io appartengo a quella di Romulus detto Roman detto Rome, che i più ossessivi ritenevano avesse un destino nel nome: avrebbe ucciso il fratello. Ma bisognava esser stati – come spesso accade agli ossessivi – concentrati sulle proprie nevrosi e non su “Succession”, per non sapere che non sarebbe accaduto niente di così dirompente, giacché per ogni momento di grandezza e ferocia di ogni personaggio ce n’erano dieci di meschinità e piscialettismo.
Quel che ha continuato a dirci Jesse Armstrong per quattro stagioni televisive ce lo diceva, prima di Nanni Moretti, già Mia Martini: gli uomini non cambiano. (Gli ossessivi a questo punto direbbero che la canzone della Martini inizia coi versi «Sono stata anch’io bambina, di mio padre innamorata», e cosa sono queste parole se non la traccia dell’elogio funebre che Siobhan detta Shiv fa del patriarca defunto di cui è l’unica figlia femmina?).
Forse il momento più illuminante del finale, e che più faceva venir voglia di dare un biscottino a coloro per i quali tutto era ingegneristicamente calcolato, era quello in cui Shiv dice che Kendall mica può diventare amministratore delegato: ha pur sempre ammazzato uno. Era uno degli elementi che, sentendosi furbissima, l’articolista di Time elencava come indizi che non sarebbe finita in modo prevedibile. Solo che l’obiezione di Shiv viene liquidata nel meno shakespeariano e più successionista dei modi: con Kendall che risponde ma no, mica l’ho ammazzato, dicevo per dire, neanche c’ero, stavo solo cercando di commuovervi. Forse la bravura è quella roba lì: buttare via tensioni drammaturgiche in modi in cui chiunque altro sembrerebbe un cialtrone, e farlo lasciando intatta la nostra convinzione che tu sia un genio e che sì, è proprio così che nella vita il fratello con più ambizione che talento scrollerebbe via un’accusa d’omicidio: maddeché, scherzavo.
Nel gigantesco buco logico finale – quello che riguarda Tom e Greg, e l’assenza inspiegabile della vendicatività meschina – c’è però un dettaglio magnifico. Il momento in cui si svela che Logan – un uomo del Novecento, grossomodo coetaneo di mio padre – non considerava veri figli i bambini adottati da Kendall. Shiv incinta – di cui non ha fatto in tempo a sapere – sarebbe la prima continuità della stirpe, per uno che era cresciuto in un secolo in cui non ci si vergognava d’avere rispetto per il primato del sangue.
È una delle due meraviglie che ci vengono rivelate su Logan dopo la sua morte, l’altra è ovviamente la storia dei sottomarini e della nave raccontata dal fratello al funerale. Due scene che ci dicono quel che già sapevamo: che il tema di “Succession” a volte pare la famiglia, a volte pare l’umiliazione, a volte pare la ricchezza, ma sempre, sempre è il Novecento. La sua struggente ostinazione a non morire, la sua svagata noncuranza rispetto alle ferite inferte alle sensibilità altrui.
Solo una storia d’un altro secolo sarebbe stata così tenace nel non abbassarsi mai a un flashback, mai a un cedimento sentimentale, mai a una giustificazione che ci dicesse che non sono cattivi: è che l’infanzia è destino. Forse è per quello che all’intellettuale romano non piace: troppo marxista, troppo poco freudiana, per niente postmoderna, neanche vagamente di questo secolo.