Imprenditrice del séLe mutande d’acrilico, l’orrenda seconda stagione dei Ferragnez e le battute piatte di Mrs. Maisel

Chiara Ferragni, che ha fatto i soldi con l’abolizione della vita privata, in questo secolo sente il bisogno di definire la sua professione ma non sa rispondere a un’undicenne (o alla di lei madre)

Rossella Papetti/LaPresse

Questa è una storia di mutande d’acrilico, monologhi brutti, vanzinismi come chiave di lettura della realtà, undicenni preposte a dire che il re è nudo, critici culturali non pervenuti, parole svuotate di significato; e poi, certo: è anche una storia di catene, bastonate, e chirurgia sperimentale.

Volevo partire da mrs. Maisel, ma invece farò una cosa che allontanerà subito i lettori di questo secolo, lettori malati di presentismo per i quali qualunque riferimento a quanto accaduto più di tre quarti d’ora fa è faticoso come le lezioni sui sumeri alle quali non riuscivano a stare attenti alle medie: comincerò dagli anni Novanta.

In quell’altro secolo in cui c’era la lira e i cellulari non facevano le foto, esistevano i mestieri. Certo: avevamo già «manager», che non si capiva cosa significasse, ma per il resto a una parola corrispondevano delle mansioni.

Le modelle erano modelle: erano abbastanza belle da volere gli stilisti mettere loro addosso i vestiti per invogliarci a comprarli, stavano sui giornali, erano tenute alla fotogenia perpetua e noi no. Le conduttrici televisive erano conduttrici televisive: avevano la battuta pronta, non s’impappinavano in diretta, stavano dentro la tv e noi no.

A metà degli anni Novanta quattro modelle piuttosto famose fecero ciò che era sensato fare se avevi una carriera a termine (problema che ha sempre assillato le modelle e i calciatori): investirono parte dei proventi del loro lavoro in un posto in cui loro e le loro pari non sarebbero andate mai, ma che grazie al lustro dei loro nomi avrebbe potuto attirare la plebe.

Del Fashion Café non resta, nella ristorazione, più traccia di quanta ne resterà delle mutande d’acrilico di Chiara Ferragni nella storia della moda, ma non è importante: era un investimento collaterale. Claudia Schiffer o Naomi Campbell non si sono mai presentate come imprenditrici, perché un mestiere ce l’avevano. Michelle Hunziker fa creme, Alessia Marcuzzi fa borsette: ma hanno un mestiere, un ruolo, le parole «conduttrice televisiva» da scrivere alla voce «professione» sulla carta d’identità.

Non si definirebbero mai «imprenditrici», e non solo perché hanno senso del ridicolo: perché sono figlie d’un secolo in cui le parole avevano un senso. Le imprenditrici erano imprenditrici: si chiamassero Estée Lauder o Miuccia Prada, creavano prodotti che la gente aveva voglia di comprare, e con quelli facevano soldi; non attaccavano il loro già famoso nome a dei prodotti purchessia sperando che bastasse a venderli.

Se però sei Chiara Ferragni, se sei una la cui principale fonte di profitto è mettere i filmini dei tuoi figli su Instagram, cosa scrivi sulla carta d’identità? Non dovrebbe essere un problema, ma lo è; è la cosa che emerge più chiaramente dalla noiosissima seconda stagione dei Ferragnez, che insiste sul già imbarazzante tema di “Unposted” (il documentario sulla Ferragni del 2019): siamo qui a dirvi che Chiara Ferragni è un’imprenditrice di successo, non una che si fa le foto su Instagram.

In un certo senso è sorprendente: drammaturgicamente, non ha nessun senso che Chiara Ferragni si vergogni così tanto di ciò che è (una che ha fatto i soldi sul niente, una che ha fatto i soldi sulla medietà, una che ha fatto i soldi sul capire prima di altri la dirompenza della telecamera frontale del telefono, una che ha fatto i soldi sull’abolizione della vita privata) da doversi catalogare a forza in categorie tradizionali quali l’imprenditoria.

Da doversi fingere un’esponente della cosa che le viene peggio, cioè i profitti collaterali. Attaccare il proprio nome famoso a una linea di prodotti ha generato storie di successo anche impreviste: nessuno si aspettava Goop, e io stessa mi sono sorpresa a comprare un vestito di Gwyneth Paltrow superando il sentirsi sceme che, per il pubblico vagamente alfabetizzato, è sempre implicito nel cadere nella trappola della fama. Non conosco una donna – e parlo di donne sofisticate e colte e benestanti – che non abbia ceduto a Skims, ovvero le mutande di Kim Kardashian. Sì, va bene, è Kim Kardashian, ma pazienza: le mutande sono ottime.

Chiara Ferragni no. Le sue mutande d’acrilico sono un gigantesco e perpetuo product placement nella (ho già detto «orrenda»?) seconda stagione di Ferragnez, persino sfondo al suo incontro con la tizia cui devolverà il cachet di Sanremo (l’altro tema, oltre a «sono un’imprenditrice da prendere sul serio», è «siamo molto attenti alle buone cause»), ma non bastano muri d’acrilico sullo sfondo a convincere qualcuna a comprarle.

Nella Milano che orbita attorno all’indotto ferragnico s’ipotizza, per l’ostinazione con cui Chiara Ferragni tiene in piedi l’acrilico collaterale, il suo non voler deludere i suoi collaboratori; io credo c’entri il discorsetto motivazionalautocertificante che a un certo punto di “Ferragnez” fa proprio ai collaboratori, un discorsetto in confronto al quale la lettera a sé stessa di Sanremo è il monologo di Molly Bloom: credo c’entri il fatto che, se non può più dirsi imprenditrice, poi che etichetta si mette? (Il discorsetto Chiara lo fa in camicia Miu Miu, perché nelle occasioni importanti si affida alle imprenditrici vere).

Il discorso di Chiara Ferragni è moscio quanto i quattro minuti, dopo nove puntate di flashback e flashforward che ci dicevano che Midge era diventata Joan Rivers o giù di lì, i quattro minuti ai quali l’ultima puntata della “Fantastica signora Maisel” arriva dovendo mostrarci con quali folgoranti battute Midge Maisel sia passata da tizia che s’arrabatta a star mondiale.

Solo che le battute folgoranti non ci sono, e Midge grande comica è come Chiara imprenditrice, ed entrambe rimandano all’intuizione dell’ultima stagione di “Boris”, attribuita ai Vanzina (attribuzione del tutto verosimile): il raccontare qualcosa d’inesistente – perché non hai il budget per girare la scena, o le battute che funzionano, o l’intuizione imprenditoriale remunerativa – al grido di «Lo dimo, non lo fàmo». Di Midge ci dicono che è star, di Chiara che è imprenditrice, e noi – nel secolo che ha abolito la critica culturale e l’ha sostituita coi like – lodiamo i vestiti nuovi dell’imperatore.

Finché arriva Giulietta. Giulietta ha undici anni, «quasi 12», l’Instagram pieno di foto ai concorsi di equitazione, e lascia nei commenti sotto una foto in mutande della Ferragni la propria perplessità. Non per moralismo: per sensatezza. «In questa foto non fai vedere vestiti o costumi da bagno ma praticamente te stessa nuda. Qual è il messaggio per noi ragazzine? Che per farci notare dobbiamo metterci nude?».

Sui social, le Vongola75 che la sanno sempre lunghissima e a loro non la si fa decidono che il commento non l’abbia davvero scritto la undicenne ma come minimo la madre, perché un’ovvietà che non abbiamo avuto la prontezza noi di rimarcare alla Ferragni è troppo umiliante gliel’abbia fatta notare un’undicenne. Non importa: se dobbiamo fingere di prendere sul serio uno col pomo d’Adamo che si percepisce donna, dobbiamo fingere di prendere sul serio anche l’undicenne.

Chiara Ferragni – che non sapremo mai se simuli scarsezza dialettica per non spaventare il grande pubblico, o se davvero non sia in grado di rispondere a ciò che le viene detto ma solo ai cliché che proietta – le risponde facendola sembrare Christopher Hitchens che si confronta con un video di Alba Parietti che canta Etienne.

«Il messaggio da parte mia è molto semplice: nessuno ci può giudicare». Signora Ferragni: è una puttanata. Non solo perché gli slogan delle canzonette sono ritornelli, non lezioni di vita; non solo perché il giudizio è il modo in cui gli umani interagiscono e pubblicare le proprie foto implica ricevere giudizi; soprattutto, perché quello che sta facendo una undicenne (o la madre, comunque: una cui lei credeva d’aver mandato il messaggio circa la proibizione del giudizio) è esattamente giudicarla.

«Perché una donna in intimo si deve vergognare del suo corpo?». Non lo so, signora Ferragni, ma ho una ventina d’anni più di lei e persino ai tempi miei le donne si facevano fotografare senza gran problemi in mutande. Certo, come sa notare anche un’undicenne (o la madre sua coetanea), non lo facevano per disperazione da like ma per vendere qualcosa. (All’undicenne o alla coetanea potrebbe a questo punto rispondere che lei sta appunto vendendo qualcosa anche – soprattutto – nelle foto senza sponsor, giacché le foto in mutande le aumentano interazioni e rassegna stampa e mica è mera vanità la sua; ma poi depotenzierebbe il ritornello dell’essere sé stesse e sappiamo che ci tiene).

«Faccio incazzare i puritani?». Non so, abbiamo una undicenne (o chi la interpreta con metodo Strasberg) che dice che sarebbe imbarazzata se la madre andasse in giro col culo di fuori e invita a pensare a quando Vittoria Ferragni sarà abbastanza grande da vergognarsi pure lei; è piuttosto normale che una bambina s’imbarazzi dell’esposizione dell’intimità genitoriale: sulla scena primaria il dottor Freud ha costruito la propria carriera e quella di qualunque scalzacani di psicologo televisivo, siamo proprio sicure di voler rispondere all’undicenne come fosse Pillon?

L’attrice di “Mrs. Maisel” ha detto che ciò che di importante lascia la serie è «storie di donne raccontate da donne». Forse, se nella tua storia nulla è interessante, funziona come quando alla riga «professione» della carta d’identità non sai cosa scrivere: non ti resta che sperare che nessuno ti faccia una pernacchia se dici che non lo fai per il denaro, non lo fai per l’esibizionismo, non lo fai per non trovarti un lavoro vero; lo fai per tutte le donne, che – a undici come a trentaquattro anni – hanno proprio bisognissimo che tu le rappresenti.

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