E se il pubblico colto non esistesse più? Se restasse a malapena un pubblico istruito che, determinato a percepirsi colto, non fosse però in grado di comprendere i codici di ciò che vede, ascolta, legge?
È un sospetto che viene leggendo ciò che viene detto dei programmi di Fabio Fazio, certo; ma non solo. È un sospetto che mi ha tenuta sveglia all’alba di lunedì, quando dopo essermi svegliata a un’ora assurda sarei tornata a dormire, se non avessi fatto l’errore di aprire Twitter.
Su Facebook sono iscritta a un gruppo americano di fan di Beautiful. Beautiful da quelle parti non è quel che è qui, il consumo vezzoso di gente che si sente spiritosa e intelligente a guardare una cosa da massaie e a fare battute su resurrezioni e adulteri. Quel genere di pubblico lì in America guarda The Bachelor (in Italia noialtri con velleità culturali guardiamo sia Uomini e donne sia Beautiful, perché abbiamo più tempo da perdere).
Il gruppo Facebook è dedicato a una delle protagoniste giovani (la figlia di Taylor) e detesta la sua rivale (la figlia di Brooke), ma il dettaglio che qui ci interessa analizzare è che, esattamente come ci si aspetterebbe da un pubblico non sofisticato, non è in grado di capire che i personaggi di fantasia non esistono davvero.
Le tizie (sono tutte femmine, ma sento di poter dire che è un caso: la scemenza non conosce gender gap) che scrivono in quel gruppo inveiscono contro gli sceneggiatori, queste figure prepotenti che abusano dei personaggi assolutamente reali che, fosse per loro, si comporterebbero così e cosà, e invece quelli fanno fare loro il contrario.
Una volta – quando il cliente aveva sempre ragione, quando se il lettore non capiva era colpa di chi scriveva, quando esisteva la selezione all’ingresso d’ogni forma di comunicazione – l’obiezione sarebbe stata ragionevole. Se tu crei un personaggio che compie dieci azioni in quella direzione, poi non puoi fargli fare una cosa senza coerenza narrativa, non senza metterci di mezzo un trauma o altra deviazione: se lo fai, io cliente ti nego la mia sospensione dell’incredulità e cambio canale.
Ma adesso, nel gruppo che ritiene Steffy Forrester moralmente ineccepibile e Hope Logan l’incarnazione del male, l’accusa non è di scrivere personaggi incoerenti: è di abusare di quella povera ragazza facendole compiere azioni contro la sua stessa natura. Come fosse un essere umano esistente e non un prodotto dell’immaginazione di chi le fa compiere quelle azioni.
Quindi mi sveglio alle cinque di mattina, è lunedì e negli Stati Uniti è andata in onda da poco più d’un’ora la nuova puntata di Succession, e Twitter è monopolizzato da gente che, senza alcuna ironia, dice di soffrire di disturbo post-traumatico, e non importa se quella di stasera era una bella puntata, io non la rivedrò mai, e non dovevano infliggermi questa sofferenza, e non hanno rispetto di noi.
Se siete parte del pubblico imbecille di questo secolo, quello che ha inventato il concetto di «spoiler», smettete di leggere, perché sto per dirvi una cosa che non ha nessun impatto sulla vostra capacità di godervi Succession ma non voglio sentirvi strepitare e quindi vi avviso comunque.
Nella puntata andata in onda domenica in America (la trovate già su Sky e su Now, peraltro, ma sappiamo che ormai il concetto di spoiler vale fino a che non l’ha vista anche chi deve ancora recuperare Canzonissima), c’erano le elezioni presidenziali. Succession è ambientato in un universo scevro dalla cronaca e dai fatti d’attualità del mondo reale. Detta altrimenti: non è mai esistito Trump.
Alle elezioni di fantasia d’una serie di fantasia su dei ricchi cattivi di fantasia era candidato anche uno dei fratelli Roy, come indipendente; ma sapevamo tutti (tranne lui) che non aveva alcuna speranza. La gara era tra un democratico e un repubblicano.
Gli sceneggiatori della serie più sofisticata andata in onda negli ultimi anni, gli sceneggiatori dell’ultimo prodotto culturale non terrorizzato di non venire compreso, gli sceneggiatori di una roba in cui, in una scena di terapia familiare, il terapeuta cita Philip Larkin e la citazione neppure viene esplicitata, quegli sceneggiatori lì fanno vincere il repubblicano.
E il pubblico che si era probabilmente compiaciuto e sentito colto riconoscendo Larkin, il pubblico che è classe dirigente ma ragiona come le colf messicane che nelle case della borghesia statunitense guardano Beautiful, quel pubblico lì dice che no, c’è un limite a tutto, questa non me la dovevi fare, mi hai risvegliato il trauma di Trump e ora mi servono le goccine.
(Nel frattempo la Bbc produce un’inchiesta per dimostrare che la psichiatria è ormai disposta a certificarti qualunque cosa, in cambio d’una parcella. Loro si sono concentrati sul disturbo dell’attenzione, ma io aspetto analoghe inchieste sui bambini che i genitori portano a far dichiarare geni incompresi da appositi istituti – no signora, il suo puccettone non è molto maleducato, è solo intelligentissimo – o sulla disforia di genere. D’altra parte, se ti servono le goccine perché un’opera di fantasia ha un presidente repubblicano, vuoi che non ti serva la chimica per il disturbo dell’attenzione o perché ti piace metterti lo smalto benché maschio).
La sparizione del pubblico colto non è avvenuta in tre giorni, e non basterebbero trenta pagine a ricostruire questo disastro. È tutt’un complesso di cose: le telecamere nei telefoni, i videogiochi spacciati per equipollenti dei romanzi russi, il terrore di non sembrare moderni che ci spinge a dire senza metterci a ridere che i fumetti sono letteratura, gli inserti culturali che dedicano pagine al booktok, cioè alle adolescenti (che mai sfoglieranno un inserto culturale) che piangono sfogliando romanzi rosa, il Grande Indifferenziato in cui Erin Doom ed Emmanuel Carrère concorrono nello stesso campionato.
Fatto sta che siamo arrivati qui, a un mondo in cui io ieri ho detto in tv che la fa facile Landini a dire che bisogna rifiutare i contratti da mille euro, se quei mille euro ti servono magari non hai voglia di fare un gesto dimostrativo, e da ventiquattr’ore ricevo messaggi che mi accusano di propalare la retorica del sacrificio; siamo così abituati ai fumetti e ai podcast e alle forme semplificate di comunicazione che siamo diventati davvero il paradosso di Boncompagni: il pubblico della prima serata che non capisce parole più complesse di «cane, pane, minestrina col dado» – solo che non siamo il pubblico della prima serata: siamo la classe intellettuale e il pubblico che essa si merita.
Siamo, probabilmente, tutti colpevoli: lo sono io che dicevo che era uno scandalo che Livia Turco non sapesse chi era Fabrizio Corona, e non sapevo che Livia Turco era l’ultimo argine all’instupidimento del ceto medio riflessivo; lo è Fabio Fazio che vent’anni fa faceva una puntata intervistando Ottavio Missoni e Alberto Arbasino, e oggi sa di dover andare incontro all’inesistenza del pubblico colto e, per non fare il tre per cento, simula interesse per le memorie di Federica Pellegrini.
D’altra parte Arbasino è morto, Missoni è morto, e se devi continuare a mandare in onda un programma ti restano questi qua, alla portata della comprensione del pubblico più stolido nella storia della comunicazione, ma determinato a percepirsi colto.