Da molti anni le big tech investono più di chiunque altro in azioni di lobby presso parlamenti e autorità di tutti i paesi in cui operano, e finanziano studiosi e ricercatori che pubblicano studi e articoli che evidenziano la bontà degli effetti del loro operato. Non è un comportamento nuovo: anni fa le multinazionali del tabacco finanziavano studi che sostenevano che fumare facesse bene e avesse effetti antistress e calmanti.
Il problema è che tali finanziamenti non sono generalmente noti né documentati: generalmente non si sa chi siano i finanziatori degli studiosi o delle associazioni di consumatori che pubblicano opinioni o studi più o meno parziali su questo o quell’aspetto del mercato online, né si conosce l’entità di tali finanziamenti. Chi canta nel coro viene promosso, sostenuto e consigliato dalle big tech ai media e agli organizzatori di convegni che esse sponsorizzano, alimentando la notorietà di personaggi “allineati”, anche di livello mondiale.
Il politico, quando non direttamente sostenuto da queste stesse aziende, trova di fronte a sé poche voci competenti a contrastare gli studi, le personalità e le celebrità che eseguono il proprio pezzettino di canto nel coro; le voci competenti ma critiche sono generalmente scarse e prive di finanziamenti. È quindi molto difficile per un non esperto formarsi una opinione indipendente e fondata.
Alcuni anni fa a Bruxelles si sosteneva che la competizione online fosse a un clic di distanza: qualunque utente, si diceva, poteva cambiare sistema e passare a un concorrente con pochi semplici passaggi. Abbiamo capito che così non è, che effetti rete e lock-in ostacolano la concorrenza in modo efficace e che mercati adiacenti si conquistano per estensione da quelli già dominati.
Il controllo degli app store e della preinstallazione di applicazioni come radice del predominio sul mercato è stato capito dai vertici politici soltanto nel 2017, in prossimità del voto finale in Parlamento di una norma sulla neutralità del dispositivo (device neutrality) che avrebbe vietato questi comportamenti anticompetitivi. La reazione delle big tech bloccò l’approvazione della norma: blasonati opinionisti, esperti e capitani d’industria che popolano media e convegni produssero un documento per i decisori politici che affermava che il provvedimento era inutile, e che non avrebbe risolto nessuno dei problemi che si proponeva di risolvere. Scrissero persino che era in contrasto con norme preesistenti, quando ovviamente ogni nuovo provvedimento è diverso dalle norme preesistenti.
Pertanto, solo recentemente questi meccanismi hanno iniziato a essere compresi anche da una parte della politica; l’Unione Europea ha iniziato a emanare direttive che nei prossimi anni tenteranno di correggere alcune di queste storture. Eppure, chi lo sosteneva quindici anni fa non veniva capito né creduto: la politica ha bisogno di tempo affinché le conoscenze sedimentino e si creino convinzioni fondate.
Si tratta peraltro di un ciclo di ritardo piuttosto comune nel rapporto tra politica e tecnologia. La gig economy, l’economia dei lavoretti come consegne a domicilio o servizi di trasporto, è stata presentata per anni da molti studi come grande opportunità di integrazione salariale e di avvio al mondo del lavoro. Oggi si inizia a capire che molto spesso essa nasconde sfruttamento e meccanismi simili al caporalato, su cui alcuni paesi hanno iniziato a intervenire.
Analogamente, i social media sono stati celebrati come il trionfo della possibilità di espressione e della possibilità di affermazione di nuovi talenti al di fuori del controllo dell’establishment. Oggi si inizia a riconoscere che essi producono effetti non positivi sulla società. Correggere queste storture dei social non sarebbe difficile, ma prima che ciò avvenga dovranno passare molti anni, affinché le idee su come intervenire sedimentino e vengano comprese da una parte della politica.
Nel frattempo, molte autorità di Stati europei hanno comminato alle piattaforme multe anche molto elevate per violazioni di norme a tutela della privacy, della protezione dei consumatori o relative a norme antitrust, proprio per alcuni dei comportamenti che abbiamo discusso; ma che effetto può avere una multa, persino da cento milioni di euro, su aziende che valgono mille o tremila volte tanto? Per loro, è semplicemente una somma esigua da sborsare per placare qualche governo, sempre ammesso che poi, dopo aver mandato sul posto i migliori avvocati del pianeta e aver resistito per cinque o dieci anni, la multa venga pagata davvero.
È chiaro che le multe non sono più sufficienti[…] Qui vogliamo sottolineare l’errore di prospettiva della politica europea, fino al 2019 e alla costituzione dell’attuale Commissione Europea.
In questo come in altri settori, l’Unione Europea per vent’anni ha davvero creduto nel nuovo mondo senza barriere e nel nuovo modo di governarlo: il modello multistakeholder […]. Solo negli ultimissimi anni, di fronte al disastro che abbiamo raccontato, anche l’Unione Europea ha capito che la scelta del laissez faire senza grandi interventi portava semplicemente alla colonizzazione, con danni e rischi insostenibili. E ha cambiato passo.
Per certi versi è un peccato, perché l’utopia del mondo unito, cooperativo, senza confini e senza nazionalismi è bellissima; e l’idea di governarlo dal basso, in maniera aperta e partecipativa, lo è ancora di più. Bisogna soltanto capire che non tutti coloro che a parole sostengono questo modello lo desiderano davvero, e che, in certi casi, il modello è soltanto il paravento per permettere a chi ha maggior potere economico di prevaricare il resto del mondo, fino a conquistarlo e sottometterlo ai propri interessi privati.
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