Mal di LibiaLa storia di una rivoluzione vinta, anche se persa

La corrispondente Nancy Porsia racconta gli anni vissuti sull’altra sponda del Mediterraneo nel post-Gheddafi. Guerra, disperazione, mafia, portate alla luce pagando sulla propria pelle le conseguenze del giornalismo indipendente

AP/Lapresse

«Chiamate Malta». 11 ottobre 2013, mezzogiorno. Il barcone, salpato la sera prima e finito poco dopo sotto il fuoco dei guardacoste, imbarca acqua a causa dei fori di proiettile. È a sessanta metri da Lampedusa, a bordo ci sono quattrocentottanta persone. Chiamate Malta, dice Roma dall’altro capo del telefono. Poco lontano c’è una nave militare italiana, la Libra, ma l’ordine è di non intervenire. Alle 17.07, dopo cinque ore di chiamate concitate, il barcone affonda.

Delle duecentosessantotto vittime, sessanta sono bambini. Fra loro ci sono anche Mohamed e Ahmed, arrivati in Libia dalla Siria nel novembre del 2012, con la famiglia. Volevano andare in Svezia, perché avevano sentito che lì i bambini potevano studiare. I loro corpi non sono mai stati ritrovati.

«Li cerco ancora nel buio dei miei incubi», scrive Nancy Porsia nelle pagine di “Mal di Libia – I miei giorni sul fronte del Mediterraneo” (Bompiani). Porsia, giornalista freelance, li aveva incontrati poche settimane prima, il 21 settembre, a Misurata. La loro storia è solo uno degli elementi chiave di un libro che, di fatto, è una dettagliatissima enciclopedia di quella “Nuova Libia” formatasi immediatamente dopo la morte del dittatore Muammar Gheddafi, nel 2011.

Un manuale storico, giornalistico, geopolitico, ma soprattutto umano, in cui la reporter italiana, per anni unica corrispondente fissa nel Paese dopo la rivoluzione, racconta l’inesorabile discesa nel caos di una realtà politica e sociale che riguarda l’Italia, con cui condivide il Mar Mediterraneo, molto da vicino. Le speranze democratiche e le contraddizioni, l’affermarsi di una costellazione di poteri armati, la guerra civile, il dramma migratorio, le responsabilità europee. La denuncia della mafia, le intercettazioni da parte delle autorità italiane, la solitudine e la paura. Storia di una «rivoluzione vinta, anche se persa» che Porsia condivide con Linkiesta.

Nancy, tu arrivi per la prima volta in Libia nel 2011, poco dopo l’uccisione di Gheddafi. Nel 2012 decidi di andarci a vivere. Perché?
Mi sembrava la cosa più naturale restare in un Paese e raccontarlo. Per questioni storico-politiche, l’Italia considera la Libia quasi come politica interna, quindi pensavo che da freelance avrei avuto la possibilità di lavorare molto di più sin dall’inizio. Non c’era nessun giornalista: dopo la rivoluzione, sono andati via tutti.

Nel libro dici che, durante la rivoluzione, nel Paese c’erano più giornalisti che combattenti.
È ovviamente una provocazione, ma è quello che succede sempre nelle breaking news, la Libia era abbondantemente coperta. Con la morte di Gheddafi, il 20 ottobre 2011, la Libia viene dichiarata liberata, e insieme alla Nato vanno via tutti i colleghi. Come dicevano già i libici all’epoca, la Nato ha iniziato il lavoro ma non l’ha finito: il Paese era ancora in una fase assolutamente sensibile e delicata, c’erano ancora tantissimi nostalgici che spingevano per una restaurazione. Per me era una storia ancora tutta da raccontare, mi sembrava assurdo come non ci fossero colleghi. Io ero alle prime armi con il giornalismo freelance, avevo quell’occhio vergine in grado di stupirsi su cose importanti. Il tempo mi ha dato ragione. I primi mesi non c’era verso di scrivere: ho lavorato tanto come trainer per citizen journalist, cosa che mi ha permesso di crearmi una rete importante in tutto il Paese.

I piccoli poteri nati dopo la rivoluzione si sono trasformati, nel tempo, in milizie sempre più strutturate, in molti casi puramente criminali, con le mani su politica, economia, traffico di idrocarburi e di esseri umani. Quando hai capito che le speranze di democrazia, di libertà e di unità nazionale erano svanite del tutto?
Il primo passo ufficiale della spaccatura del fronte rivoluzionario è, nel 2013, la legge che prevede il divieto per dieci anni dell’ex figure senior del regime di Gheddafi da qualsiasi mandato governativo nella nuova Libia. Il contesto è quello di un confronto tra città-stato, nella fattispecie Zintan e Misurata: la prima con finanziatori Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Egitto, la seconda con alle spalle i Fratelli Musulmani, quindi la Turchia. Entrambe vogliono il controllo su Tripoli, il porto di mare su cui avere un piede nei palazzi governativi. Le elezioni del 2012 sono vinte, di fatto, dalla lobby Zintan, e la legge, spinta dai misuratini, allontanerebbe molti membri del congresso vicini a essa. Entrambe le forze hanno milizie nella capitale, che tengono in ostaggio il Congresso in alternanza. Sei mesi dopo la legge, Zintan spinge per una manifestazione della società civile contro le milizie misuratine a Tripoli, che arriva fino al loro quartier generale. I misuratini aprono il fuoco, muoiono circa ottanta persone. Per via di questo massacro, le milizie di Misurata vengono costrette a lasciare la capitale. È in questo clima che si arriva alle elezioni del 2014, volute da Zintan, che era l’unica forza a Tripoli: vince ancora Zintan, e Misurata non riconosce il risultato elettorale, rientrando nella capitale a luglio e dando così inizio alla guerra civile. Gli Zintan avevano l’appoggio di Khalifa Haftar, che aveva già lanciato la sua guerra contro i terroristi a Bengasi e piano piano contro anche i terroristi di Tripoli. Di conseguenza, il congresso generale, che rappresenta Misurata, resta a Tripoli, mentre il nuovo governo, uscito dalle elezioni del 2014, se ne va a Tobruk.

Uno dei protagonisti del libro è Dumi, rivoluzionario della prima ora e rimasto poi, tragicamente, vittima dell’Isis. Ce lo racconti?
Dumi rappresenta il cuore della Libia, e allo stesso tempo il ventre molle della politica. Sembra una sorta di “ladro gentiluomo”, è un ragazzo particolarmente intelligente e aperto nonostante il contesto intellettualmente “povero” e conservatore in cui cresce. Rappresenta il nuovo paradigma sociale che si viene a creare nel post rivoluzione: la generazione “pre-Libia”, gli over 30 che conoscevano bene gli ingranaggi del regime, inizialmente non favorevoli alla rivoluzione per paura del vuoto di potere – il tempo darà loro ragione – versus i giovani ventenni come Dumi, abbastanza grandi per combattere, ma troppo piccoli per capire la struttura e l’establishment di un regime. Dumi decide di combattere insieme ai suoi amici, e si distingue per le gesta eroiche. Lui è molto raffinato, nel pensiero. È l’unico musulmano che non ha nessun problema a prendere parte a serate in cui si parla di ateismo. Nel post-rivoluzione continua a vivere di adrenalina, sempre alla ricerca dell’affare del secolo: una volta mi chiese di fare import-export di rame. In questa sua smania adrenalinica si trovava in situazioni in cui lui per primo si rende responsabile di crimini. Mi raccontava la Libia underground di cui nessuno osava parlare: le orge, le droghe. Riesce a uscire da queste dinamiche aprendo con alcuni amici, molti dei quali atei, un business di Art design decorazioni a Misurata, ma dopo pochi mesi l’Isis prova con un attentato a sfondare il muro per entrare proprio a Misurata. Lui decide di tornare a combattere: non era una questione ideologica, ma di vita o di morte.

Anche perché non c’era un esercito.
A differenza di Egitto e Tunisia, che in momenti di transizione importanti hanno visto l’esercito come ago della bilancia, in Libia questo non è accaduto. Gheddafi, in maniera strategica, a parte alcuni corpi non ha mai creato un esercito, proprio per paura di un colpo di stato militare. Morto lui, le brigate rivoluzionarie non hanno non hanno mai deposto le armi come il Governo di transizione generale chiedeva, perché in una dimensione di città-stato tutti temevano la mossa del vicino. La NATO aveva sostenuto le Brigate rivoluzionarie fino alla morte del dittatore, ma poi se n’era andata. Piano piano, le brigate si sono trasformate in milizie, che non hanno necessariamente accezione negativa. Accanto a quelle dei signori della guerra e dei trafficanti, infatti, ci sono milizie che proteggono il territorio. Noi garantisti europei non ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale un esercito in alcune circostanze, come quella di un cambio epocale, per garantire la sicurezza nazionale. Tra le brigate c’è ovviamente chi è diventato signore della guerra, chi è entrato nel business delle armi dei migranti. Le potenze straniere, poi, hanno iniziato a finanziare le parti per creare instabilità. C’è invece chi, come molti miei amici, è rimasto allo stato primordiale, ossia di difesa del proprio territorio, della propria città. Che è un’altra cosa.

Leggendo la storia di Ahmed e Mohamed, «morti di politica» come scrivi nel libro, veniamo in contatto con il dramma delle partenze di migranti verso il Mediterraneo. Indichi nell’accordo tra Unione europea e Turchia il punto di non ritorno sulle politiche migratorie, proseguite con il memorandum Italia-Libia del 2017. Cosa pensi dell’Europa oggi?
L’Europa come è stata pensata dai padri fondatori non esiste più. Laddove i diritti umani hanno valore ce l’hanno sul proprio territorio, e ne hanno un altro quando si tratta di persone cittadini che vengono da altri Paesi. Gli Stati membri dell’Unione europea non possono più dichiararsi Paesi con uno Stato di democrazia, con uno Stato di diritto: si fa di tutto attraverso la politica di esternalizzazione, uno stratagemma machiavellico per depistare la giurisprudenza internazionale, ma che comunque non salva i Paesi che si macchiano di questi crimini dalle proprie responsabilità. È oramai evidente come i Paesi europei cerchino costantemente nuovi strumenti per raggirare le convenzioni internazionali, e credo sia proprio entrato in crisi lo Stato di diritto a livello mondiale perché stiamo affrontando nuove sfide, come il nuovo fenomeno dello spostamento in massa di persone da una parte all’altra del pianeta. Credo sia in crisi l’idea di democrazia, e anche di cittadinanza: nel nostro Paese si fa fatica a riconoscere la cittadinanza a persone che sono nate e cresciute in Italia. Tocca reinventare il senso della cittadinanza per ristabilire una sorta di equilibrio democratico.

Con la tua inchiesta sul “cartello libico”, nel dicembre del 2016, ti inimichi uomini e istituzioni potenti, che ti impediscono di tornare nel Paese. Com’è stato scoprire, mentre eri in Tunisia, di essere protetta dall’intelligence algerina e non da quella italiana?
Sicuramente quel giorno, seduta a quel tavolino, davanti a quel tè alla menta, ho tirato un sospiro di sollievo. Perché ero veramente terrorizzata. Però non riuscivo neanche a lasciare il Paese: non riuscivo a lasciare il mio presidio perché la Tunisia era in realtà una sorta di retrovia libica. Mi ha dato la misura del gioco in cui mi ero infilata, ma è stata la prova provata che non ero una pazza: ho vissuto questo stato di terrore in solitudine, con poche persone accanto a me, senza nessuno del mondo mediatico o politico italiano che mi avesse dato un cenno di vicinanza e sostegno. Anzi, mi hanno intercettata proprio in quel periodo. Nonostante avessi detto loro di essere in pericolo, non hanno attivato nessun sistema di sicurezza, né mi hanno dato consigli. È stata un’occasione per imparare come funziona la politica.

Le autorità italiane, però, come hai anticipato ti tenevano d’occhio. Nel 2021 scopri di essere stata oggetto per sei mesi di intercettazioni nell’ambito di un’inchiesta della procura di Trapani sui presunti collegamenti tra Ong e trafficanti, una sorveglianza i cui contenuti (come prevedibile) non risulteranno utili ai fini processuali. Quali pensi siano state le ragioni dietro questa attività?
Ovviamente entriamo nel campo delle ipotesi. In una democrazia cosiddetta tale il potere esecutivo dovrebbe essere separato da quello giudiziario, ma in Italia abbiamo visto che la polarizzazione sul discorso migratorio a livello politico ha fortemente influenzato anche la magistratura. In molti casi sono stati adottati metodi al limite della violazione di diritti. Nel mio caso sono proprio stati violati: pur di dimostrare una tesi predefinita, hanno deciso di mettere nel registro degli indagati decine di persone per provare una tesi che poi non è stata confermata. Il mio è un caso importante: da non indagata, sono l’unica persona a cui hanno intercettato le conversazioni direttamente. Siccome era il periodo in cui l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti stava presentando il suo memorandum di intesa, credo ci fosse anche una sorta di indirizzo politico per la magistratura a provare che chi si opponeva a esso avesse degli interessi. Temevano che magari io da giornalista potessi alzare l’asticella, pubblicare altro.

Parli anche del momento in cui nel 2017 Minniti, in occasione di un summit a Tunisi, mette fine alla conferenza stampa nel momento in cui in cui arriva il tuo turno, lasciando l’intera platea sbigottita.
Sì. Io mi presento, lui scappa. Penso che loro volessero sapere cosa io avessi in mano, perché avevano paura che io potessi rilanciare.

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