Con la voce di Tom Berninger, frontman dei National, potete avere due tipi di rapporto. O vi sentite rappresentati mentre canta una straziante ballata sul mal di vivere, esattamente come fareste voi se solo ne foste capaci, oppure v’infastidisce in modo insopportabile per come impone quel certo modo d’essere adulti e diversamente ambiziosi: i lacerati ma consapevoli, certi di avere l’x-factor anche se non lo ammetterebbero mai, quelli che fanno correre le vicende della propria vita come fosse un film, perché sicuramente l’ha scritto Sam Shepard.
A proposito di “x” per ciò che riguarda la collocazione anagrafica, pensate che questi sono gli effetti terminali di quella che in un giorno lontano Douglas Coupland battezzò “Generazione-X”, per distinguerne i caratteri ansiosi e insicuri dalla sicumera di chi l’aveva preceduta, gli onnipresenti, onniscienti e inaffondabili boomer.
Vivendo sul crinale tra i quaranta e i cinquanta, questi prototipi from the heart of Cincinnati, i fratelli Dessner (ala creativa), i fratelli Devendorf (ala ritmica) e Berninger (prototipo di poeta maledetto), si collocano in questa poco allegra brigata. All’altezza del nono album, che arriva dopo un lungo silenzio, una semi-dissoluzione e una crisi creativa, vestono i panni delle voci dell’esperienza, esponendo senza pudori e trasformando in canzoni il loro turbolento viaggio nel mondo della cultura musicale americana.
“First Two Pages of Frankenstein” è un disco per passioni forti. O lo si ama facendolo proprio o lo si detesta, accusandone la spudoratezza e la vocazione auto-rappresentativa e smaccatamente venata di narcisismo. Il titolo denuncia il luogo dove Berninger sarebbe andato a cercare ispirazione, ovvero in quelle prime righe in cui Mary Shelley riporta la lettera dell’esploratore Robert Walton.
Musica da confortevole Suv con degni impianti hi-fi e sentimenti che in diverse fasi della produzione musicale furono provocati da sigle come gli U2 o i Coldplay. Per i National vale la considerazione a suo tempo espressa nei loro riguardi, ossia che propongono un’indubbia qualità a cui è impossibile restare indifferenti, che questo album suona magnificamente come “The Joshua Tree” o “Viva la Vida” (da cui raccoglie il testimone), ma che tutto ciò sembra far parte più di un archivio che di un esperimento.
Il problema è il solito: la grazia. La grazia di scansarsi e non ricucire i propri turbamenti che somigliano in modo inquietante a quelli di quando avevi sedici anni, solo in versione più sgualcita. Fare un passo avanti e vivere l’incipiente mezza età col coraggio imposto dalla canizie e dalla diminuita resistenza all’alcol, per non parlar del resto. D’altra parte, questi ex ragazzi sono insieme da oltre un quarto di secolo, da quando dall’Ohio traslocarono a Brooklyn, vivendo insieme in un loft nella parte scalcinata del quartiere e coltivando insieme la giovinezza, il sogno musicale e quella particolare scapigliatura che solo New York ti istilla nelle vene.
The National è diventata la band che cantava la malinconia come nessun’altra, che faceva sentire eroi tutti coloro che l’ascoltavano e li condividevano. Il successo della band cresceva e con esso la sua qualità: Aaron Dessner, fresco di un Grammy come spin doctor dei dischi indie di Taylor Swift, acquisiva una statura compositiva ragguardevole e una maestria come arrangiatore di queste atmosfere ad alto tasso descrittivo.
Musica dei dolori che ti restano dentro, delle perdite, degli infiniti goodbye, suono identitario su cui Berninger sapeva mettere la faccia giusta col contributo di suo fratello, il documentarista Tom, finalizzatore visuale della band e della consorte Carin Besser (ex editor del New Yorker), musa del flusso di coscienza riversato nelle sue liriche. Finché non è successo che l’età, gli eccessi, la pandemia e il distanziarsi dei percorsi esistenziali dei membri della band non l’hanno trascinata nell’anticamera della fine. Strano come la fama si possa venare di depressione e incomprensione. Ma come nei drammi migliori, alla caduta ha fatto seguito la risalita di cui quest’album è il resoconto.
Canzoni viscerali, interpretazioni magistrali, ospitate nobilissime (Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers e Taylor Swift) e la questione della longevità al centro del tutto, perché nella vita di un artista arriva il momento di farci i conti. Per chi ama i National, “First Two Pages of Frankenstein” è un disco da amare allo struggimento. Per chi non supera la distanza da una band così – come capitò per gli U2, o i Rem, ma anche Tom Waits – prevarrà una generale perplessità, tra l’ammirazione per un lavoro musicale di sofisticata realizzazione e mai ridondante e il desiderio d’andare oltre, sottraendosi a questa liturgia del rimpianto. Che d’altronde non smette d’essere un asso nella manica nella scienza delle canzoni, dal momento che c’è poco che superi la suggestione di un hipster canterino, interamente dedito alla contemplazione di bellissimi “come eravamo”.