Non essendoci state grandi manifestazioni di giubilo popolare dopo il bonus semestrale di cinquanta euro – l’Italia è rimasta fredda se non critica sulla “mancetta nera” del Primo maggio – Giorgia Meloni ha pensato bene di aprire subito un altro cantiere per vedere di portare a casa un altro obiettivo, cioè l’araba fenice della riforma costituzionale in senso presidenzialista, storico pallino della destra.
Vedremo come andranno le discussioni con i partiti in calendario martedì prossimo (con il probabile primo faccia a faccia tra la premier e Elly Schlein), si cercherà lì di capire se e come sarà possibile arrivare a una mediazione condivisa giacché sulle regole costituzionali Meloni non vuole fare da sola, mica per altro ma perché rischierebbe di andare ad un referendum popolare sulla riforma che in realtà sarebbe su di lei: meglio evitare. La premier dunque cercherà di portare dalla sua, se non tutta, almeno una parte dell’opposizione, avendo davanti a sé grossomodo un quadro di questo tipo.
La destra parte dal semipresidenzialismo francese, ipotesi in tempi nemmeno tanto lontani contemplata anche a sinistra ma via via abbandonata, anche perché una riforma del genere tra l’altro porrebbe la questione non irrilevante della permanenza al Colle di Sergio Mattarella, che è evidentemente un incubo che l’opposizione vuole scongiurare.
L’ipotesi di lavoro più praticabile, in linea di massima, parrebbe dunque o quello della elezione diretta del premier – la proposta di Matteo Renzi e Carlo Calenda, che dalla premier andranno con una delegazione unitaria – oppure quella del rafforzamento dei poteri del premier, indicato e non eletto direttamente (qualcosa di simile al premierato forte di cui si parlò nella lontana Bicamerale di Massimo D’Alema e poi nel “comitato dei saggi” insediato da Giorgio Napolitano all’epoca del governo Letta).
Quest’ultima è la soluzione preferita dal Partito democratico, mentre il Terzo Polo si trova in una posizione letteralmente centrale: potrebbe appoggiare la destra sull’elezione diretta del premier, rinunciando al semipresidenzialismo dunque con la soluzione del “sindaco d’Italia” e risultare così l’ago della bilancia della situazione.
Sono cose complicate, anche perché in materia costituzionale i dettagli sono dirimenti (quali poteri per il premier? E fino a che punto si lederebbero i poteri attuali del capo dello Stato?) ed è per questo che s’immagina che la trattativa sarà complessa e non breve.
Sarà da vedere se il Partito democratico, che da anni sostiene la necessità di dare più peso al presidente del Consiglio – pur non eletto direttamente ma solo indicato – confermerà questo orientamento anche nella nuova situazione politica dominata dalla destra e dalla sua aggressiva leader/premier.
È senz’altro corretto sostenere che le riforme vanno pensate indipendentemente dal quadro politico – e comunque la riforma entrerebbe in vigore solo nella prossima legislatura – ma è chiaro che ognuno fa i suoi calcoli, il che non è illegittimo se in funzione degli interessi del Paese.
E allora la domanda è scivolosa: in una fase come questa, con Giorgia Meloni sugli scudi, davvero bisogna dare al premier ancora più poteri di quelli attuali, che come stiamo vedendo in questi giorni non sono affatto pochi? La possibilità di un governo Meloni bis nella prossima legislatura è di là da venire ma è da mettere in conto, e se già adesso la premier sta dimostrando di potersi prendere tutto, dalla Rai all’Inps all’Inail e chi più ne ha più ne metta, cosa farebbe un domani disponendo di ulteriori poteri?
Per esempio, attribuire al/alla premier il potere di scioglimento delle Camere sottraendolo al Capo dello Stato potrebbe dargli/darle un peso tale da squilibrare il sistema.
La questione dunque non è solo tecnica ma obiettivamente deve essere anche politica. È possibile infatti che il governo può essere stabile e forte anche con le attuali regole, perché in fin dei conti è sempre la politica, più che i meccanismi, ciò che tiene su, o meno, gli esecutivi. Sono ragionamenti che tengono conto di una realtà politica che è cambiata, per la sinistra, in peggio. Con una destra arrembante che occupa tutti gli spazi, e comunque dentro un neo-bipolarismo che si sta reggendo da solo senza rafforzamenti “presidenzialistici”. Si tratta di ragionamenti che probabilmente Elly Schlein sta facendo.
Peraltro, essendo più che prevedibile che Giuseppe Conte vorrà star fuori dalla “trattativa” predisponendosi a capeggiare il fronte del No alla riforma costituzionale, la segretaria del Partito democratico dovrebbe essere indotta a non cedere all’avvocato questo scettro “di sinistra”: e come potrebbe farlo se non evitando di mettere la firma del Partito democratico sulla riforma? Anche se a ben guardare questa sarebbe una scelta fatalmente tacciata di conservatorismo istituzionale e che infine configgerebbe con la sua propria convenienza, se il Partito democratico vincesse le elezioni e Schlein diventasse premier con più poteri.
Il rischio per la segretaria è di passare per “stampella” di Meloni o per la “signornò” che piega l’esigenza di un governo forte alle sue convenienze di partito. Un cul de sac da cui dovrà per forza uscire.