Finalmente i ragazzi italiani scelgono di fare l’università. Una buona notizia per il Paese penultimo in Europa per percentuale di laureati sulla popolazione. Ma come dimostrano le proteste per gli alloggi nelle sedi delle università più grandi, non siamo pronti a questo fenomeno. Eppure non è nuovissimo. Vi era già stato un aumento del numero di iscritti negli atenei italiani tra il 1999 e il 2003, ma dopo sette anni di stabilità erano seguiti cinque anni di discesa, legati alla crisi economica e al calo demografico. Da allora però l’aumento è ripreso: anche considerando la leggera riduzione nell’anno accademico 2021/22 rispetto al precedente, in sei anni vi è stato un incremento del 10,4 per cento, che contrasta con la contemporanea riduzione dei ventenni nel nostro Paese. Erano sei milioni e trecentosessantacinquemila nel 2015 e sono diventati sei milioni e tremila nel 2021.
Non abbiamo visto arrivare questo fenomeno perché la sua crescita non è stata omogenea, ma si è concentrata in alcune aree, quelle già più avanzate del Paese. Secondo i dati del ministero dell’Università nel 2010/11 negli atenei dell’Emilia Romagna erano iscritti quattromila studenti in meno che in quelli della Sicilia e 52.400 meno che in quelli della Campania. dodici anni dopo superavano quelli di entrambe le regioni Allo stesso tempo se all’inizio dello scorso decennio gli universitari che avevano scelto sedi lombarde erano solo novemila in più di quelli che frequentavano quelle del Lazio, nel 2022/23 erano diventati 64.100 in più. Insomma, ad avere attirato gli studenti sono stati gli atenei lombardi, emiliani, piemontesi, mentre per quelli del Sud vi è stato un crollo.
Questo trend è stato evidente sia nel corso di tutto lo scorso decennio che nel periodo di generale aumento degli iscritti cominciato dal 2015/16, che ha visto sempre Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia prevalere tra le maggiori regioni quanto a incremento dei frequentanti. La stessa tendenza è visibile anche per quanto riguarda l’origine degli studenti. Gli atenei del Mezzogiorno si svuotano anche perché dal Sud e dalle Isole semplicemente vengono meno universitari, mentre crescono quelli del Centro-Nord. Gran parte di questo divario è causato dalle divergenze demografiche: negli anni c’è stato un crollo nel numero dei ventenni del Sud che non si è verificato altrove.
Le sedi universitarie in cui c’è stato un incremento in doppia cifra sono state Torino, il Politecnico di Milano, la Cattolica, sempre nel capoluogo lombardo, nonché Padova; mentre per Bari e Catania vi è stato un crollo.
Per comprendere l’attuale emergenza degli alloggi, però, è utile capire che a Milano, per esempio, l’aumento delle iscrizioni non è dovuto solo al numero sempre più grande di giovani lombardi che fa l’università, ma c’è anche un altro aspetto: crescono a un ritmo maggiore quanti vengono da fuori regione. Prendiamo per esempio il Politecnico di Milano, la percentuale di lombardi in sei anni è scesa dal 74,2 per cento al 55,6 per cento. È aumentata quella degli stranieri, che è arrivata all’11,3 per cento, quella dei meridionali che è passata dall’8,3 per cento all’11,5 per cento, di coloro che vengono dal Centro e dal resto del Nord.
Gli atenei più attrattivi sono in grandi città del Nord o in centri che hanno già importanti tradizioni universitarie. E all’aumento degli studenti si affianca la loro concentrazione. È qualcosa che si è già visto da tempo in tutta Europa. Però a differenza che in altri Paesi in Italia sono presenti peculiarità che rendono il fenomeno non solo nuovo, ma anche più sfidante per il sistema Paese. Basta guardare la statistica sul background dei genitori: solo il 34 per cento degli universitari italiani è a sua volta figlio di un laureato, è la percentuale più bassa d’Europa. In enorme ritardo è in atto un cambiamento generazionale.
Questo spiega anche perché nel nostro Paese non si è mai pensato seriamente a finanziare forme di welfare studentesco, studentati, incentivi economici per chi decide di proseguire gli studi. In fondo una volta fare l’università era appannaggio di una ricca élite, non un fenomeno di massa come sta diventando ora. Non a caso sono solo il 10 per cento gli iscritti che ricevono una borsa di studio, contro il 63 per cento francese o l’89 per cento svedese, e allo stesso tempo solo il 24 per cento lavora mentre studia, molto meno del 47 per cento tedesco, ma anche del 59 per cento polacco.
La mancanza di strumenti come i mini-job tedeschi, pensati anche per gli studenti, si fa sentire. Non stupisce che in assenza di sostegno economico pubblico o di sostentamento proveniente dal lavoro la maggioranza degli universitari viva con i genitori, il 68-69 per cento a seconda dell’età, contro una media europea che non va oltre il 46 per cento neanche nel caso dei più giovani, i 20-22enni. Se la quota di quanti stanno da soli o con altri inquilini non è molto lontana da quella che si ritrova in altri Paesi a fare la differenza è la percentuale di quelli che stanno in studentati, il 23% nel caso dei 20-22 anni nella Ue e solo il 7 per cento in Italia.
In sostanza l’Italia soffre problemi di affollamento presso le sedi universitarie, simili a quelli che vivono altre grandi città europee (per esempio Amsterdam) nonostante in realtà nel nostro Paese la proporzione di studenti sul totale della popolazione sia ancora molto più bassa.Cosa succederebbe se dovessimo diventare veramente europei, se a proseguire gli studi fossero più di metà di quanti si diplomano?
Si parla molto del fatto che in tanti non vogliono fare pendolarismo, che vogliono per forza studiare e abitare a Milano, che ormai è una Mecca per i giovani, l’unica città veramente cosmopolita italiana. È normale, a vent’anni (ma non solo) le mode e il passaparola influenzano moltissimo, è sempre stato così. Possiamo anche commentare, con molte ragioni, che ci si deve rassegnare a cercare casa più lontano, a Lodi, a Bergamo, in Brianza, ma dobbiamo anche fare i conti con la realtà.
Siamo di fronte a una tendenza ineluttabile, quella a spostare il centro delle attività umane nei grandi centri, abbandonando la provincia, è un trend mondiale e non si può fermare con l’invettiva o con l’ironia contro i giovani pretenziosi. La si deve accettare e governare. Anche se riuscire a trovare risorse economiche distogliendole ai tesoretti e alle misure per pensionati e pensionandi è molto più difficile che ignorare o guardare con sufficienza gli studenti che protestano.