Una prima moglie è per sempreCremlinologia del berlusconismo attraverso i necrologi sul Corriere

La lunga vita del Cavaliere ha lasciato meno domande di quelle dei Borgia, ma in realtà sappiamo poco della sua formazione sentimentale. Forse a capire chi era importante e chi comanderà ci può aiutare Pupi Avati

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L’unica cosa che vorrei sapere è: chi è la Paola Zuccotti di Berlusconi? Non perché ritenga che dietro ogni grande uomo ci sia una grande donna (peraltro non so come siano fatti, né i grandi uomini né le grandi donne, e chi decida che sono tali), ma perché come tutti sono bramosa di pettegolezzi biografici.

Dei necrologi di Silvio Berlusconi sul Corriere ho notato le cose che avete notato anche voi. Innanzitutto quello della prima moglie messo lassù in alto, per primo, a sancire un principio che tutti gli italiani conoscono: una prima moglie è per sempre.

L’autobiografia di Marcella De Marchis Rossellini s’intitolava “Un matrimonio riuscito” nonostante i due si fossero separati dopo sei anni e nonostante, di Roberto Rossellini, tutti ricordino soprattutto il successivo matrimonio con Ingrid Bergman; figuriamoci se Carla Elvira Dall’Oglio, madre di Marina e di Piersilvio, gli unici due figli di Berlusconi sui cui nomi non ci confondiamo, non fa il primo necrologio.

Poi la presenza di Marina in un numero di necrologi molte volte superiore a quelli in cui compare Piersilvio; non so se, mentre leggete, la situazione si sarà pareggiata: il Corriere ha scritto che i necrologi ieri non ci stavano tutti e una parte verrà pubblicata oggi, il che significa che Silvio muore e a risorgere sono gli incassi dei giornali.

So però che tutti corrono a porgere le loro condoglianze a Marina con la prontezza con cui nel film andavano da Michael Corleone, mica da suo fratello o da sua sorella: una prima moglie è per sempre, ma pure un capofamiglia.

In un’intervista d’un paio di mesi fa a Repubblica, il regista Pupi Avati, nato due anni dopo Silvio Berlusconi, raccontava di Paola Zuccotti, la ragazzina che seguiva nel 1952. La seguiva nel senso che la forma di corteggiamento era quella: lei nel pomeriggio faceva i suoi giri, e tu la seguivi, senza rivolgerle mai la parola. E infatti nella strepitosa ricostruzione Avati dice che non aveva idea di che voce avesse, la Zuccotti, pur avendola seguita per due anni.

«In due anni, non si è mai girata una volta. È questo che mi è rimasto nel cuore. Questa mancanza di reciprocità fa sì che una persona ti resti dentro». Dopo aver sospirato di sollievo perché i giornali non li legge più nessuno e nessuno accuserà Avati di stalking, io sono rimasta col desiderio di sapere le Zuccotti di gioventù di tutti gli uomini d’altri tempi.

Chi era la Zuccotti di Silvio? Ci aveva mai ripensato? Anche lui, come Avati, ci era rimasto malissimo quando gli avevano detto che era morta? Forse saprei tutto se non fossi stata una ventenne scema che non pensava di dover conservare “Una storia italiana” (mi toccherà ricomprarlo su eBay pagandolo come un appartamento). Invece, mi rendo conto col pentimento di quando muore David Bowie e ti tocca andare a comprare i cd perché chissà che fine hanno fatto e sembri una parvenue che lo ascolta solo da morta, non so nulla della formazione sentimentale di Silvio.

E pochissimo anche del presente. Delle vicende degli ultimi anni, quella che mi aveva più appassionato era, all’inizio dello scorso decennio, Nadia Macrì, che in tv raccontò che, la prima volta che si erano visti, lui come un vero gentiluomo aveva chiesto cosa facesse lei nella vita, e lei aveva risposto: «Presidente, cosa vuole che faccia: le marchette».

Poi Ruby, che è impossibile non sapere e che lunedì ha pubblicato una storia su Instagram con un cuore spezzato, un po’ come Avati quand’è morta la Zuccotti (ma Avati non si esprime a mezzo disegnini, c’è un divario generazionale). L’anno scorso girava per editori la proposta d’un’autobiografia di Ruby che credo nessuno abbia ancora pubblicato. Il dettaglio migliore era lei che telefona entusiasta alla madre dopo quella prima sera di burlesque e altre amenità: «Sono stata a cena a casa del capo dell’Italia».

Sono due giorni che leggo post indignati di gente secondo cui non viene raccontato abbastanza che losco criminale fosse Berlusconi e che paese ideale di onestà ed efficienza e produttività fosse l’Italia prima di lui, e come sarebbero fiorite le carriere dei millennial sotto i governi di – di chi? Forse di Bertinotti, che si vestiva assai meglio.

Nel ravanare gli archivi che ormai caratterizza sempre le morti, qualcuno ha tirato fuori uno strepitoso confronto tra i due, moderati da una giovane Annunziata, in cui Silvio dice che Fausto è vestito «con tutti i colori dell’autunno». Altro che dare interviste impreparate a Vogue: c’è stato un tempo in cui i politici italiani avevano sensibilità per la moda, poi ci siamo trovati con questi qua.

Sono due giorni che leggo gente incapace di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti che ha trovato un nuovo capro espiatorio – ah, come avrei prosperato senza Silvio – e sono due giorni che ripenso a quella scena del “Terzo uomo” in cui Orson Welles dice: «In Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerra, terrore, omicidi, carneficine: ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo Da Vinci, e il Rinascimento. In Isvizzera non ci fu che amore fraterno: ma, da cinquecento anni di pace e democrazia, che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù».

Sono due giorni che penso tantissimo a Marta Fascina. Come sarà andata? Si saranno sposati di nascosto e i figli lo scopriranno solo all’apertura del testamento? Avrà figliato di nascosto, e anche qui servono telecamere all’apertura del testamento? Si sarà limitato a intestarle dei conti all’estero? Avrà la benedizione di Marina, che diversamente da Piersilvio andò alle finte nozze giacché Marta aveva evidentemente capito ben prima che uscissero i necrologi che solo la primogenita contava?

La lunga vita di Silvio Berlusconi lascia meno domande di quelle dei Borgia, ma molte più di quelle degli inventori degli orologi a cucù, e del Toblerone, e dei conti esteri. Molto prima delle Cayman, quei piccoli aspiranti Berlusconi di cui l’Italia era piena prima di sapere chi fosse Berlusconi, i borghesi medi, portavano i soldi in Svizzera.

In quegli anni novecenteschi che si collocano dopo le Zuccotti ma prima dell’euro. Quelli che il revisionismo storico dei poveri inattrezzati millennial ha trasformato in epoca di persone perbene, invece di rendersi conto che era solo un’epoca la cui fittizia prosperità si fondava sull’evasione fiscale a nord, sulle finte pensioni d’invalidità a sud, e sui posti fissi per tutti.

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