Il cioccolato artigianale bean to bar si fa in segreto. O meglio di notte, quando la civetta, animale-simbolo di Minerva, dea greco-romana della sapienza e della conoscenza, allarga gli occhi per vedere attraverso le pieghe del buio. Per i più è un secondo lavoro. Tutti sono autodidatti. Ma che cos’è questo “nuovo” cioccolato artigianale, che viene dall’estero e sta conquistando anche l’Italia? Ne abbiamo parlato con tre giovani produttori italiani, che guidano la nuova generazione di chocolate maker – dopo i grandi nomi come quello di Guido Castagna – con un obiettivo comune: far capire che etico è sinonimo di buono. Non solo per il palato, ma anche per tutta la filiera.
Prima di tutto, però, cominciamo da un passo indietro: che cosa si intende con cioccolato bean to bar, ovvero, “dalla fava alla tavoletta”, e in che cosa è diverso dal cioccolato industriale? La differenza sta nel processo di produzione, che viene, da un lato, accentrato in tutte le sue fasi, e dall’altro controllato minuziosamente, così da poter garantire un risultato finale – l’agognata tavoletta di cioccolato – all’altezza delle aspettative del produttore. Infatti, la filiera dell’industria dolciaria è tendenzialmente lunga, coinvolge anche attori terzi oltre al venditore “di marchio” finale, e il prodotto passa di mano in mano con facilità. Per esempio, è probabile che le fasi finali della produzione avvengano su masse di cacao semilavorate, ottenute dalla tostatura e macinazione delle fave, che non sono state seguite direttamente dal produttore. Al contrario, la filiera bean to bar è corta, e comincia alla fonte di tutto: le piantagioni di cacao e le loro fave, che vengono selezionate per qualità del prodotto e delle condizioni lavorative di chi vi è coinvolto. Essiccate sul luogo di coltivazione, le fave vengono consegnate all’artigiano bean to bar crude, pronte per affrontare il primo di vari passaggi di lavorazione: la tostatura, fondamentale per un primo affinamento del profilo aromatico del cacao selezionato. Da lì, le fave vengono passate al mélanger, uscendone come massa grezza di cacao.
A questo punto, il cioccolato si avvicina sempre di più. È tempo di aggiungere zucchero e altri ingredienti a piacere alla massa e di affrontare gli ultimi passaggi: concaggio e temperaggio, per amalgamare tutti gli aromi, abbassare l’acidità della fava lavorata artigianalmente, e mettere in forma, infine, la tavoletta. Avete presente quando, dopo anni, vi capita per la bocca una fragola che sa davvero di fragola e vi vengono i lucciconi agli occhi? Ecco, l’effetto del cioccolato bean to bar sulle papille gustative è proprio questo: un risveglio aromatico. Il contatto con un sapore puro, a volte fruttato, altre floreale, che appaga e che, soprattutto, fa apprezzare il famigerato fondente anche ai più restii. Perché l’amarezza, nel cioccolato, è sempre un difetto, e il buon chocolate maker lo sa e la combatte tenacemente, sperimentando con livelli di tostatura e stagionatura post-temperaggio.
«Del cioccolato bean to bar non c’è una vera e propria Bibbia. Questo rispecchia un po’ la sua natura di movimento partito dal basso, dove ogni incontro e ogni scoperta è fondamentale per crescere, non solo come individuo, ma come comunità. Per me, entrare in contatto con il cioccolato bean to bar per la prima volta è stata una rivelazione, ma anche, lo ammetto, una sfida raccolta». Lui è Marco Bertani, fondatore, nel 2022, di Cocoah! e artigiano bean to bar che di notte tempera cioccolato e di giorno lavora come ingegnere elettronico. «È una routine in cui mi trovo bene. La mia testa è bravissima a stare in mille luoghi contemporaneamente, e anche il cioccolato è cominciato come hobby, mi ricordo ancora i primi cioccolatini che ho fatto, ripieni al cocco. Da lì ho cominciato a studiare, e ho visto che in America c’erano produttori strabilianti che facevano il cioccolato in casa, diciamo. Allora mi sono detto: lo voglio fare anche io».
Gli Americani a cui Marco fa riferimento sono gli iniziatori del movimento bean to bar, chi ne ha codificato il nome e ha ispirato altri artigiani in tutto il mondo. A dir la verità, l’origine del bean to bar si perde già tra le leggende del mito. È una cultura di smanettoni, alla fine, e infatti molti produttori sono dei fuoriusciti della Silicon Valley. Nel mondo dei “codici aperti” è quasi impossibile rintracciare il capostipite. Alcuni nomi rimangono tra gli apripista, però: Scharffen Berger Chocolate Makers, che la vulgata vuole tra i primissimi del suo genere, che aprì nel 1996; e poi, a ruota, Mast, Taza Chocolate e Theo Chocolate. Un gruppo di rookie, direbbero gli start-upper, di cui anche Federico Dutto, anima di LIM Chocolate, attivo nel bean to bar dal 2020, condivide lo spirito: fallire velocemente, fallire per migliorare. E fare, fare, fare. «Questo è ufficialmente il mio secondo lavoro. Di natura, diciamo così, sarei un marketing manager. Ho passato anni a inseguire il sogno del lavoro corporate nella grande azienda, poi mi son detto: questa cosa non vale il mio tempo. O meglio: volevo avere più controllo sul mio tempo. Non essere obbligato a stare dietro a quello imposto da altri. Lo volevo dilatare un po’, ecco. Fare cioccolato artigianale mi permette di farlo. Anche piuttosto letteralmente, visto che, nel mio paesino minuscolo, non mi conosce comunque quasi nessuno, perché in laboratorio ci vado all’alba o a notte fonda. Spero di poterci dedicare più tempo, un giorno. Oggi lavoro ancora come direttore commerciale ma per una piccola azienda casearia, siamo leader italiani nel biologico dei latticini. Anche questo fa parte della lentezza».
Chi invece si dedica al cioccolato full-time è Armin Untersteiner di Karuna Chocolate, che ha fondato, nel 2018, nel suo Alto Adige con la moglie Katya Waldboth, dopo un periodo di permanenza in India. «Karuna vuol dire “misericordia” in sanscrito. Io e mia moglie siamo sempre stati attivi all’interno di varie associazioni e progetti a favore dei meno abbienti, e anche fare cioccolato si inserisce nella nostra filosofia. Perché spesso la filiera del cioccolato è “inquinata” da pratiche di lavoro poco etiche, come sfruttamento minorile o prodotti di scarsa qualità. Noi, invece, ci impegniamo a rifornirci da produttori trasparenti e a selezionare solo le materie prime migliori. Per esempio, tutti i nostri prodotti sono plant-based, anche le tavolette “bianche” per cui usiamo farina di mandorle disoleata, molto proteica, al posto del latte in polvere. Nella nostra zona il latte abbonda, e ho visto spesso che, piuttosto che buttare via del latte quasi scaduto, lo si polverizza». Materie vegetali che, in casa Karuna, si gustano come monorigine in purezza (e dunque un cioccolato che proviene da un’unica piantagione, tradizionalmente indicato con il Paese di provenienza) o mischiati con altri ingredienti aromatici: whisky, gin, olii essenziali, frutta disidratata e frutta secca. E la selezione continua con piccole dragées, creme e nibs di cacao. «Al momento stiamo lavorando su un nuovo tipo di cioccolato, affinato nelle botti in cui ha riposato un vino della famiglia del Porto. Poi, con gli studenti di alcune scuole locali, abbiamo lavorato per sviluppare una linea di cioccolati agli olii essenziali di alberi e piante. In assortimento abbiamo già il pino cembro, ma tra poco questa selezione sarà ancora più ricca. Diciamo che le idee per continuare a sperimentare non mancano».
Sperimentazione che, nell’ambito bean to bar, vuol dire non scendere mai a compromessi con il mercato, a discapito di tutte le difficoltà. Sempre Armin: «l’Alto Adige è una terra felice per le eccellenze gastronomiche, è un territorio molto ricettivo e che ti dà la possibilità di espanderti subito nei mercati austriaco e tedesco, e da lì sull’internazionale. Il consumatore medio del resto d’Italia è, in generale, meno disposto a spendere di più per il prodotto eccellente. La nostra partenza invece è stata davvero buona, l’ambiente era pronto all’idea di un cioccolato davvero di qualità, e in Alto Adige siamo stati i primi ad aprire. Offrire eccellenze fa parte dell’identità del nostro territorio, pensiamo anche al turismo e a che cosa il turista viene a cercare in Südtirol. Quindi ci siamo subito radicati molto bene sul locale. Ora vendiamo soprattutto in area germanofona, ma abbiamo distributori anche in Cina e negli Stati Uniti. E vendiamo soprattutto tavolette».
Nel panorama italiano, però, l’Alto Adige è una nicchia felice. Nel resto della penisola, le cose viaggiano su binari diversi. Lo conferma Federico Dutto di LIM: «La maggior parte del mio business è fatta dalle collaborazioni con altri produttori d’eccellenza, non dalla vendita della singola tavoletta. Il che, al momento, non mi dispiace, perché io ho sempre creduto nel lavoro di squadra. È un insegnamento che mi deriva dallo sport, dal rubgy soprattutto, che ti obbliga ad affidarti alla tua squadra per vincere o anche solo, in realtà, per giocare. Da solo, un rugbista singolo non è nulla, non c’è la concezione del campione come nel calcio. E, per esempio, quest’inverno ho fatto una collaborazione stupenda con Simone De Feo di Cremeria Capolinea di Reggio Emilia, vera eccellenza del gelato, gli ho fornito il cioccolato per i suoi panettoni ed è venuta fuori una cosa spaziale. Ma a Simone fornisco anche il cioccolato per il gusto fondente, ad esempio. Ora sto sentendo anche i ragazzi di Materica, una gelateria di Sondrio con cui stiamo studiando dei gusti particolari. Poi, certo, non ci si può affidare solo alla squadra, nel senso che il cioccolato bean to bar, essendo artigianale, ha una personalità molto ricca, che gli deriva soprattutto da chi, quel cioccolato, lo fa. Io, per esempio, lavoro per lasciare il mio cioccolato il più spigoloso possibile, che non vuol dire difficile o antipatico, ma ricco di aromi e complessità. Ho un’ossessione per i fiori, cerco di tirarli fuori da ogni fava. È un lavoro complesso, lungo, dove rischi di buttar via anche del prodotto che hai tostato male. Ma quando poi assaggi alla cieca e il tuo cioccolato si riconosce sempre, e vince anche dei premi, be’, capisci che è quello che vuoi fare. Che hai imboccato la strada giusta».
Anche Cocoah! di Marco Bertani viaggia, per il momento, sulle partnership. «Figurati che io un e-commerce vero e proprio ancora non ce l’ho… ma ci stiamo lavorando! Nel frattempo ho collaborazioni con realtà di eccellenza, soprattutto gelaterie. Andare dal rivenditore singolo è complicato, sia per una questione di quantità sia perché, sullo scaffale, la tua tavoletta è difficile da rintracciare. Anche questo modello, però, minaccia di cedere, ti spiego meglio: se d’estate, per esempio, un produttore come me vende meno cioccolato “fisico”, ci ritorna però con, appunto, le gelaterie. Ma qui si sta creando un problema di costo, perché, con l’inflazione, il costo del gelato è aumentato parecchio, e i colleghi con cui dialogo sono molto attenti a questa cosa. Sanno che non possono andare fuori mercato con il prezzo di quello che offrono. Stiamo arrivando al punto in cui, anche a voler fare loro un prezzo incredibilmente di favore, non ci stanno dentro. Per questo è importante educare il pubblico al cioccolato non industriale, che è, ti assicuro, anche a prova di bambino. Io ho due figli, e il mio più grande non aveva mai toccato cioccolato… fino a quando io e mia moglie non l’abbiamo beccato che girava per casa con una tavoletta e se la smangiucchiava tutto contento. Era cioccolato rigorosamente fondente. E questa educazione del palato è importantissima, secondo me. La memoria del gusto è stupefacente, a distanza di anni riesci ancora a ricordarti un sapore particolare, che ti ha fatto innamorare o che è legato a un momento particolare della tua vita. E quindi, una volta che hai assaggiato una cosa buonissima, non riesci più a tornare indietro. A me, che sono molto giovane come chocolate maker, succede continuamente, e innamorarmi di un cioccolato nuovo ogni volta è strabiliante».
Insomma, altro che fondente “difficile”. Se persino i bambini ne vanno matti, vuol dire che il problema sta nelle papille gustative degli adulti… o nel cioccolato industriale a cui sono abituate. «Io adoro lavorare con i bambini quando si tratta di assaggiare a sperimentare con i sapori, perché sono delle scatole vuote, aperti a ogni tipo di esperienza. Non hanno ancora assorbito, per spiegarmi meglio, la nozione che “il cioccolato fondente è amaro”. Perché non lo è! Il problema è che la grande industria utilizza spesso fave di scarsa qualità, e si sa, quando la materia prima non è buona, allora devi ammazzare il sapore perché non si senta che è cattivo. Quindi quello che succede è che tostano le fave a temperature molto alte – dai 60°C in su -, l’amaro viene fuori, e si perdono tutte le linee aromatiche che a me piace invece inseguire. Il problema del cioccolato, se così lo vogliamo chiamare, è l’acidità, non l’amarezza. Per questo, per conservare gli aromi, io non conco nemmeno il cioccolato, perché il concaggio rischia di immettere molto calore all’interno della massa. Poi, per lisciare l’acidità, che altrimenti andrebbe tolta con il calore, lascio stagionare il prodotto per molto tempo. E i bambini, quando poi lo assaggiano, riconoscono tutti gli aromi che per un olfatto adulto sono più difficili. Questo perché i bambini annusano tutto, hanno fame di scoperta e di contatto con la terra. Una cosa che dovremmo sempre imparare da loro».
Perciò ricordatevi di andare a naso, sempre. E di riscoprire la gioia sensoriale del cibo, quella che da bambini vi spingeva a essere curiosi e, perché no, un po’ birbanti. Alla fine, essere rookie vuol dire anche questo: inventare le proprie regole, seguire l’intuizione e sapere di stare facendo cose straordinarie. Lunga vita al cioccolato bean to bar (anche in Italia).