Comfort food per eccellenza, il cacao è un piacere irrinunciabile nonostante sia tra i prodotti vegetali meno sostenibili. In termini di emissioni di CO2, è secondo solamente ai derivati animali come carne e formaggi poiché rilascia 19 kg di anidride carbonica per ogni chilo prodotto. Inoltre, la filiera del cioccolato è afflitta da problematiche di deforestazione e sfruttamento del lavoro difficili da debellare anche a detta di grandi aziende come Mars Inc., che in un’inchiesta del Washington Post del 2019 ha evidenziato come il cacao certificato (pagato milioni di dollari extra rispetto a quello dalla filiera non tracciata) in realtà non sia così etico. Infatti molte delle documentazioni non sono attendibili al 100%. Controllare centinaia di migliaia di piccolissimi agricoltori è praticamente impossibile. Ma come si è arrivati a questo punto?
Il viaggio del cacao dal Sudamerica all’Africa
Le radici del cacao si fondono con quelle delle civiltà pre-Colombiane e conducono in Sudamerica, dove veniva consumato come bevanda. Qui, in principio c’era il Theobroma, cultivar nativa delle foreste pluviali di Ecuador e Peru ben nota agli europei, che per secoli se ne sono riforniti in grandi quantità. Fino a che, nel 1916, due malattie (Frosty Pod e Witches’ Broom) ne hanno diminuito la produzione del 77% decretando una carenza globale. Per sopperire alla richiesta crescente, le potenze coloniali inglesi e francesi hanno introdotto la coltivazione delle piante di cacao in Africa, principalmente in Ghana e Costa d’Avorio, rendendola più economica. Qui sono emersi i primi “lati oscuri” della filiera del cioccolato: deforestazione e sfruttamento minorile.
Il problema della deforestazione
Il metodo dello “slash and burn” è la principale causa della scomparsa delle foreste pluviali, ecosistemi fondamentali per mantenere la biodiversità e il suolo stabile, proteggere dai forti venti e mitigare le temperature. Consiste nel tagliare gli alberi vecchi per far posto alle piante di cacao, in modo da velocizzare la produzione e impiegare meno manodopera. Secondo la rivista americana The New Republic, la Costa d’Avorio, il più grande esportatore che muove 2,2 milioni di tonnellate l’anno, ha perso l’80% delle sue foreste negli ultimi 50 anni. Un circolo vizioso che ha portato a “sentire” gli effetti del cambiamento climatico nelle zone produttive e che, a sua volta, sta compromettendo la crescita delle piante di cioccolato, costringendo a spostare le coltivazioni verso aree dove le alte temperature e la scarsità di precipitazioni sono (per il momento) meno impattanti.
Lo sfruttamento del lavoro minorile
L’altro grande problema della filiera del cacao è lo sfruttamento del lavoro, in particolare quello minorile. Per limitare la deforestazione, Ghana e Costa d’Avorio hanno forzato gli agricoltori a ripiantare nei terreni già coltivati e poveri di nutrienti, richiedendo alte percentuali di fertilizzanti e più manodopera. I costi di produzione sono aumenti in modo esponenziale e, in assenza di controlli sul prezzo finale della materia prima, la diretta conseguenza è stata un incentivo allo sfruttamento del lavoro minorile, con 790.000 bambini impiegati nelle coltivazioni della Costa d’Avorio. I più piccoli vivono sotto la soglia di povertà, guadagnando appena 1,25 dollari al giorno e, nonostante le campagne globali di denuncia, nel 2021 si è registrato un aumento del numero di questi giovanissimi lavoratori.
Eliminare il cacao o coltivarlo in laboratorio?
Negli ultimi anni sono nate diverse filiere controllate e i brand hanno attivato rigidi controlli per rendere la produzione più etica, ma questo non è bastato a ridurre l’impatto ambientale e lo sfruttamento minorile. Ecco perché il movimento “Alt-Choc” ha un approccio più radicale e propone un’alternativa al cioccolato tradizionale che elimina completamente il cacao dalla ricetta. Parte tutto dalle fermentazioni vegetali e ci stanno lavorando le startup QOA, Voyage Foods e WNWN Food Labs. Quest’ultima, fondata nel 2021 dallo scienziato con PhD alla Oxford University Johnny Drain e dall’ex banchiera Ahrum Pak, mira a disegnare un futuro sostenibile grazie al cioccolato cacao-free. “Mentre bollivo delle patate in una pentola ho per caso annusato il vapore e ho sentito lo stesso profumo della cioccolata calda” racconta Drain. «Mi sono chiesto che cosa determina il sapore del cacao e ho compreso quali sono gli altri alimenti in natura a condividerne il profilo aromatico, che può avere fino a 500 diverse sfumature derivanti dalla fermentazione dei chicchi e dalla loro tostatura».
Da qui è partita una ricerca sulle fermentazioni, care a Johnny, per anni consulente del Nordic Food Lab del Noma e di Mr Lyan, gotha della mixology. Dopo varie prove e test sui consumatori Choc, il primo cioccolato cacao-free al mondo prodotto da WNWN Food Lab, sarà lanciato sul mercato il 18 maggio 2022. Si tratta di un fondente premium con note di mirtillo e caramello, dal finale ricco e persistente. 100% vegano, realizzato con burro di karité biologico e una bassa percentuale di zucchero, la sua produzione emette l’80% in meno di CO2 rispetto al cacao tradizionale. Parallelamente a questo grande lancio, il movimento “Alt-Choc” si sta diffondendo velocemente con tre aziende uscite dalla modalità stealth e un quarto progetto portato avanti da Matt Orlando del Ristorante Amass di Copenhagen, ex-Noma.
Le soluzioni in vitro
Se il cioccolato senza cacao non può essere definito propriamente “cioccolato”, in California esiste un’altra alternativa sostenibile che nasce dal lavoro di California Cultured. Il team composto dai co-founder Alan Perlstein e Harrison Yoon, supportato dalla COO Debbie Neuman e da Steve Stearns, ex chef del Noma con un MBA in Food Chemistry, ha sviluppato un processo di coltura cellulare analogo a una qualsiasi coltivazione di frutta. «Selezioniamo le cultivar della varietà Theobroma che hanno profili aromatici interessanti, da cui estraiamo le cellule vegetali utilizzando minerali e sostanze nutritive naturali, lasciandole “crescere” per poi isolare la più veloce e quella dal sapore migliore» racconta Alan Perlstein, CEO di California Cultured Inc. «A questo punto le cellule vengono trasferite in grandi serbatoi dove ricreiamo le condizioni ambientali della foresta pluviale. Raccolte settimanalmente, subiscono i tradizionali processi di produzione del cioccolato per acquisire il caratteristico sapore. Alla fine otteniamo un prodotto che ha lo stesso aspetto, consistenza e gusto del cacao che viene dalle piantagioni».
Un alimento di nuova generazione, nato da pratiche di agricoltura cellulare che, a differenza delle altre startup citate, partono dalla materia prima cacao. Libero da deforestazione e sfruttamento minorile, questo metodo potrebbe cambiare in positivo l’industria del cioccolato senza lasciare insoddisfatti i palati dei chocolate lover più esigenti.