Ci sono dettagli di sceneggiatura che solo le cerimonie fanno risaltare. A «Scambiatevi un segno di pace», Piersilvio resta un paio di secondi col braccio teso vanamente verso Marina, che si è voltata subito a scambiarsi pace con la Fascina, e non è mica ostilità per lui: è che il suo, di segno, non lo vede; è che la liturgia è sceneggiatrice. Chissà se il regista Mediaset che questo momento l’ha inquadrato (diversamente da quello Sky) stamattina ha ancora un lavoro.
A «non abbandonarci alla tentazione», mi sgrido per non aver studiato il rito ambrosiano e ignorare quindi se il cambiamento venga da lì o da dove, è un segno dei tempi?, il padre nostro non è più così stronzo da indurci in tentazione, e al massimo ci abbandona?, è la versione della preghiera che ci possiamo permettere in questo secolo tremebondo in cui ho perso di vista le messe?
Per tutto il resto del tempo, per tutto il resto della diretta televisiva del funerale di Silvio Berlusconi, mi chiedo quand’è che il cattolicesimo sia diventato così inadeguato. Mentre i figli piangono o hanno comunque l’aria distrutta come fossero bambini cui è morto un padre nel pieno delle forze, e non un ottantaseienne con la leucemia, io penso – come chiunque l’avesse visto – a Roman Roy che si proclamava pre-grieved (come lo dici, in verboso italiano? «Vengo col lutto già elaborato»?) e poi crollava.
Penso, come chiunque, a Shiv Roy e a quel suo «Goodbye, my dear, dear world of a father», e mi chiedo ma noi perché no, perché Marina non può parlare, da quand’è che il cattolicesimo ha perso il senso dello spettacolo? I giornalisti dicono che in Duomo c’è il rito ambrosiano che non prevede interventi esterni, e per un attimo penso e allora Elton John?, poi mi rendo conto che sto sovrapponendo il funerale di Gianni Versace e quello di Diana Spencer.
Il vescovo tenta di compensare con una quantità di anafore tale che l’omelia sembra un testo di Vasco Rossi, si sbaglia pure a leggere, mescola congiuntivi e indicativi, «un uomo politico ha chi lo applauda e chi lo detesta», nel testo distribuito in anticipo ai giornali i verbi erano giusti, sarà l’emozione della performance, il vescovo in Duomo come Chiara Ferragni a Sanremo.
Sarà che il Duomo di Milano è più grande della chiesa degli artisti di Roma, ma le regie (ho tenuto accese sia Sky sia Canale 5, sperando di ottenere più scorci) non mi hanno dato una frazione della soddisfazione di quella dei funerali di Maurizio Costanzo nel farmi capire la geografia politica delle panche.
Osservare l’ovvio era facile: nella Milano del Vedovo, Marta Fascina non solo si nota, non solo è vicina a Marina, ma somiglia tantissimo a Leonora Ruffo, che nel film di Risi era colei che tentava invano di prendere il posto di Franca Valeri, che però mica moriva. Si capisce dov’è seduta Maria De Filippi (vicina alla Toffanin), ma non dove sia Francesca Pascale.
Per non parlare della prima moglie che nessuno si sogna di didascalizzarmi: molte inquadrature di Veronica Lario (una delle croniste ha detto che il segnaposto diceva «Bartolini»: il rito ambrosiano non prevederà nomi d’arte) che so riconoscere da sola, per la Dall’Oglio mi sarebbe servito del giornalismo divulgativo, e invece niente.
Grande soddisfazione mi dà però il commento di Canale 5, che continua per ore dopo la fine del funerale, e dove non manca niente e nessuno.
Mimun che precisa che la cravatta che indossa è di Berlusconi (la miglior risposta alle polemiche di questi giorni era il Rutelli di Corrado Guzzanti: «L’Italia non è di sinistra o di destra: l’Italia è di Berlusconi»).
Cesara Bonamici che commenta i palloncini azzurri con «è il colore dell’Italia e del nostro cielo» e sintetizza lo sguardo che Zangrillo rivolge al feretro con «scusa se non sono riuscito a salvarti la vita».
Barbara Palombelli che riferisce dell’unica telefonata che Silvio Berlusconi le abbia fatto in cinque anni di programma Mediaset, una sera che lei s’era messa un golfino «effettivamente molto brutto», e lui la chiamò: «Signora, mi faccia una cortesia: quel golfino non se lo metta più». Sarà sessismo? Sarà dresssplaining? Quanto è d’altri tempi dirti che sei malvestita, e quanto lo è farlo dandoti del lei.
Mi tornano in mente i necrologi di chi gli dà anche da morto del lei nonostante ci abbia lavorato tutta la vita (Mity Simonetto, Niccolò Querci), e quello di Zangrillo, «Presidente, ho sempre voluto darle del lei, solo oggi mi permetto di dirti ciao», e quello di Cairo, «per la prima volta ti do del tu, ti voglio bene, mi mancherai» (and I’m just calling one last time, not to change your mind, but just to say I miss you baby – eccetera).
Durante la messa s’invoca un «perché morissimo per sempre» (per vivere in dio o qualche fantasia del genere), e mi torna in mente Ceccarelli che martedì scriveva che Berlusconi faceva gesti scaramantici al fessissimo «siam pronti alla morte» del nostro (orrendo) inno nazionale.
Dopo la cerimonia Barbara Palombelli dice che insomma, parliamo sempre male dell’Italia, ma questa favolosissima cerimonia ci ha dimostrato che «è un grande paese, Milano è una grande città», e mi viene da ridere e mi si concretizza il sospetto d’avere un problema coi riti e i cerimoniali, chissà cosa direbbe uno psicanalista di quanto mi sembra ridicolo Beppe Sala con la fascia tricolore (sennò non si capisce che è il sindaco?).
Ho certamente torto io, ma mai quanto quelli che da giorni borbottano che insomma, se ne parla troppo, che è ’sta berlusconeide, che sarà mai, dobbiamo smetterla con la mistica della nostra infanzia e la santificazione dell’uomo che ci diede “Uccelli di rovo” e “Dynasty”. Santificazione in effetti pare troppo (ma chi lo santifica, a parte quelli che lavorano per le sue televisioni e mi pare un po’ il minimo?).
Ma, senza aver visto Alexis Carrington Colby che beve champagne nella vasca da bagno, mica lo so se saremmo gli stessi. Quasi tutti i gay milanesi che conosco, per dire, senza quel “Dynasty” di formazione sarebbero etero: il che, converrete, sarebbe un peccato.