Giornata mondiale degli oceaniConoscere (e riconoscere) il bluewashing per arginarlo prima che sia troppo tardi

Se fosse un Paese, l’ecosistema marino sarebbe la settima economia mondiale in termini di Pil. Proprio per questo, sempre più aziende e privati promuovono azioni che, solo nelle intenzioni, si propongono di preservare l’oceano

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L’oceano ricopre il settantuno per cento della superficie terrestre e per questo costituisce una parte fondamentale del capitale naturale mondiale: regola il clima su scala globale, preserva la salute e il benessere umano, fornisce milioni di posti di lavoro e custodisce risorse dotate di un immenso potenziale, in grado di stimolare la crescita economica e l’innovazione. 

Secondo un rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), in base ai dati relativi al 2018, le industrie marine rappresentano un valore pari a 2.500 miliardi di dollari annui e più di tre miliardi di persone in tutto il mondo dipendono dall’oceano per il loro sostentamento. La blue economy, l’insieme delle attività economiche legate al mare, renderebbe quindi l’oceano la settima economia mondiale in termini di Pil. Proprio per questo, sempre più aziende e privati promuovono azioni che nelle intenzioni si propongono di preservare l’oceano e garantirne un uso sostenibile. Ma non sempre alle promesse corrispondono i fatti.

Quando si parla di bluewashing si intendono delle strategie di marketing e di comunicazione adottate da aziende, organizzazioni, enti o singoli individui funzionali a conferire a queste realtà un’immagine positiva e a dare l’impressione di aver scelto di adottare comportamenti e pratiche sostenibili e rispettose dell’ambiente, in particolare dell’oceano e delle acque. Nel caso del bluewashing quest’immagine proposta non è tuttavia coerente con il reale operato dell’impresa o dell’ente per quanto concerne, ad esempio, i processi di produzione di un bene, tutti gli altri processi interni ed esterni o la catena di fornitura. 

Allo stesso modo di quanto accade con il greenwashing, ma in riferimento alla parte blu del pianeta e a tutti gli organismi che la abitano, il bluewashing è una sostenibilità solo di facciata, tesa a ripulire l’immagine di un’impresa o di un’organizzazione o a costruirla in maniera che possa apparire ingannevolmente virtuosa. Tali pratiche sono perseguite dalle imprese per generare un valore sul prodotto, aumentare la visibilità e migliorare la reputazione di un brand. 

Come ha rivelato l’articolo “Exploring bluewashing practices of alleged sustainability leaders through a counter-accounting analysis”, pubblicato sulla rivista Environmental impact assessment review nel 2021, oltre l’ottanta per cento degli eventi negativi significativi relativi a un a campione di ventotto aziende del programma Ungc Lead (le aziende maggiormente impegnate a favore della sostenibilità e più aderenti ai principi Global Compact delle Nazioni Unite) non è stato rendicontato o è stato rendicontato solo parzialmente nei bilanci di sostenibilità aziendali. 

I risultati di questo studio hanno contribuito allo sviluppo della letteratura sul bluewashing. L’analisi ha messo in discussione sia le prestazioni delle aziende considerate leader della sostenibilità, sia la trasparenza delle loro pratiche di rendicontazione, sottolineando che non sempre alla quantità di informazioni diffuse dalle imprese corrisponde un adeguato livello di attendibilità. 

Può rivelarsi quindi molto difficile per un consumatore che acquista un prodotto o usufruisce di un servizio capire se un’impresa sia davvero attenta alle acque. Il cittadino, però, può essere più accorto al modo in cui un brand comunica o ai tecnicismi che si celano dietro le strategie di comunicazione. Nel mondo della moda, ad esempio, molto spesso le etichette riportano la dicitura “prodotto sostenibile” o “prodotto ottenuto da materiali riciclati”. 

Informazioni di questo tipo sono da considerarsi troppo vaghe e generiche. Quando invece le specifiche di un prodotto vengono diffuse in maniera più puntuale e precisa, con maggiori dettagli ad esempio sulla percentuale di materiali riciclati impiegati per realizzare un prodotto o sul modo in cui sono stati riciclati i materiali utilizzati, allora è molto più probabile che l’azienda stia adottando davvero comportamenti efficaci e rispettosi delle acque. In generale, maggiore è la trasparenza, maggiore è il grado di solidità di determinate campagne di comunicazione. 

I consumatori più attenti, per esempio quelli della Generazione Z, si informano andando sui siti delle imprese, oppure leggono e valutano i bilanci di sostenibilità. Affinché il consumatore possa adottare scelte consapevoli diventa necessario acquisire una buona conoscenza dell’oceano. A tal proposito, la Commissione oceanografica intergovernativa (Ioc) dell’Unesco, l’organismo delle Nazioni Unite responsabile della difesa dell’oceano, cerca di garantire un approccio scientifico alla tutela delle acque affinché le iniziative delle imprese non si traducano in azioni di bluewashing

Coordinando l’Ocean literacy, i programmi per l’educazione all’oceano o per l’alfabetizzazione al mare, l’Ioc prova rendere le persone maggiormente consapevoli dell’impatto che l’oceano ha sulla vita degli esseri umani e di quanto le azioni quotidiane degli individui condizionino l’ambiente marino. 

«È necessario rendere il settore privato più partecipe», afferma Francesca Santoro, senior programme officer per Ioc/Unesco e responsabile a livello mondiale dell’Ocean literacy per l’Ocean decade. Il decennio delle scienze del mare per lo sviluppo sostenibile, continua l’esperta, «ha come pilastro fondamentale l’ocean literacy, il cui scopo è permettere che il sapere scientifico possa essere trasformato in azioni concrete». Tali azioni possono essere quelle di un comune cittadino che decide di consumare l’acqua e l’energia in maniera più consapevole o le scelte di un grande imprenditore che invece decide di modificare il processo produttivo per determinare un minore impatto sulle acque.

«Far leva sull’impatto distruttivo che la crisi climatica ha sulla vita dell’uomo e sulle attività economiche può far capire che è importante agire subito. A livello globale, il movimento di educazione all’oceano sta guadagnando riconoscimento grazie a iniziative internazionali, come quella della Commissione europea chiamata european ocean coalition (EU4Ocean) o il programma Ocean literacy with all (Olwa), che mira a estendere approcci partecipativi attraverso la ricerca e la realizzazione di attività sviluppate da e per diversi stakeholder», conclude Santoro.