Nicolas Polli, classe 1989, interpreta a modo suo la fotografia di natura morta. Sovrappone elementi, spesso legati al mondo del cibo, che si insinuano silenziosamente nella nostra quotidianità. L’obiettivo? Creare un senso di meraviglia che va oltre il disagio che, inizialmente, può generare una lumaca che si arrampica su un bicchiere o una fragola spappolata sul palmo d’una mano.
Polli è la versatilità fatta a persona: fotografa sia per la stampa sia a scopi commerciali, fa il graphic designer, insegna in università (ai suoi studenti dice sempre di non prendersi troppo sul serio) ed è a tutti gli effetti un editore. Nel 2012 ha fondato, assieme all’artista Salvatore Vitale, il magazine YET, punto di riferimento per i fotografi contemporanei di tutto il mondo.
Scorrendo sul suo profilo Instagram, l’impressione è quella di osservare immagini caotiche ed essenziali al tempo stesso. Quasi come un designer, crea in solitaria le sue composizioni fondate sull’unione di alimenti, oggetti, piante e, a volte, animali: gli elementi delle sue fotografie sembrano levitare verso l’alto, come se non ci fosse gravità. Il fil rouge è sempre quello di evitare qualsiasi forma di spreco, che nella fotografia still life è un problema ricorrente. Nicolas Polli, direttamente dall’orto, coltiva e coglie i protagonisti dei suoi scatti. Infine, finisce tutto nel suo piatto e nel suo stomaco: se questa non è circolarità!
Nicolas, raccontaci i punti focali della tua storia e del tuo percorso artistico.
«Tutto è cominciato quando da giovane facevo snowboard, e dopo un incidente ho dovuto smettere. Volevo diventare uno snowboarder professionista ma non è mai successo. Per restare in connessione con i miei colleghi e amici ho deciso di iniziare a fare foto per immortalarli. Ciò mi ha permesso di capire quanto fosse interessante la fotografia: in questo medium ho trovato leggerezza e una fonte d’ispirazione che avevo sempre sottovalutato. Un mio amico poi mi disse che potevo addirittura farci dei soldi (sorride, ndr), cosa che io non immaginavo perché pensavo restasse una bellissima cosa tra amici. Visto che non potevo diventare un atleta, ho deciso di continuare i miei studi. Tra l’architettura e la fotografia scelsi la fotografia, e per fortuna/sfortuna non mi accettarono nella scuola in cui scelsi di andare, quindi ripiegai sul graphic design. Dal 2012 ho proseguito creandomi un background tra fotografia e graphic design. E pian piano ho scoperto la fotografia di natura morta e di still life che, in termini di costruzione, assomiglia molto a ciò che fa un designer».
Come crei, nel pratico, le composizioni che danno vita alle tue foto?
«Nel pratico faccio tutto da solo. Lavoro tanto e spesso con oggetti di vita quotidiana. Non nasco come artista e non vengo da una famiglia di persone estremamente acculturate, non abbiamo mai avuto un interesse elaborato per il mondo della cultura. Questa connessione con l’oggetto comune era per me un ottimo mezzo per creare qualcosa che tutti potessero capire».
Cosa speri di comunicare con le tue creazioni capaci di valorizzare oggetti di uso quotidiano?
«In una delle mie immagini, per esempio, puoi vedere un cucchiaio: tutti sanno cos’è, ma attraverso la fotografia acquisisce un’altra dimensione, magari viene piegato o messo in connessione con qualcosa di sgradevole come una lumaca. Questi due elementi, assieme, creano al contempo disagio e fascino. Le immagini, in questo modo, acquisiscono un certo charme, come se fossero delle fotografie di moda. Si crea un’energia semplice dove ognuno può ritrovarsi e dove riesco, forse, a comunicare qualcosina in più attraverso un’immagine complessa ma piena di elementi semplici».
Uno degli scatti più particolari del tuo repertorio mostra un enorme pesce circondato da frutta. Nel testo del post su Instagram hai scritto di averlo chiamato Dave. Come nasce questa foto?
«Quella di Dave è una storia incredibile, iniziata già malissimo (ride, ndr). Wallpaper Magazine nel 2021 mi aveva chiesto di fare delle storie basate su ricette commissionate dagli artisti. Seguendo l’energia della produzione di ogni artista dovevo interpretare la ricetta attraverso il suo stile. In quel caso, voleva fare questa specie di carpaccio di un pesce che non si trova alle mie latitudini, perché io vivo in Svizzera. Inizialmente abbiamo ordinato due pesci da un chilo e mezzo, ma il pescivendolo – dato che pensava fosse per una ricetta – ci ha dato questa cosa di otto chili».
Visualizza questo post su Instagram
E qui scatta la magia dell’improvvisazione.
«Ci siamo ritrovati a fare la fotografia all’esterno perché all’interno, a causa della puzza, era impossibile convivere con Dave. Nella foto sembra che il pesce sia quasi volando, ma in realtà è infilzato con un filo di ferro che lo tiene su. Per fortuna, nonostante l’odore non gradevole, siamo riusciti a cucinarlo e a servirlo in una grande cena con molte persone. È questo il valore che cerco di dare alla fotografia, ambito in cui c’è un grandissimo spreco di materiali e di cibo. Alla fine di ogni servizio cerco sempre di non sprecare niente e di portare avanti un discorso etico. Nella foto di natura morta, per dirti, ci sono spesso delle colle che rendono il cibo esteticamente più bello, ma poi non si può più mangiare».
Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
«Adesso vivo in campagna, quindi la possibilità di avere un orto e di coltivare delle cose che poi fotografo (e mangio) mi dà ispirazione. Esistono tanti fotografi che fanno lavori interessanti, mi ispira il contemporaneo non soltanto a livello di percezione di vita ma anche a livello artistico. Provo a creare un bilanciamento tra il mondo commerciale e il mondo artistico. Alle volte, quello artistico è un universo di difficile accesso, ed è un problema che sta facendo riflettere tantissimi artisti. Il mondo dell’arte deve essere accessibile, ma non tutti gli artisti possono permettersi un pubblico: non tutti i lavori sono di facile interpretazione. Servono persone in grado di fare da ponte tra lavori più difficili e di far capire alle persone che l’arte, in realtà, non è snob: mi piacerebbe avere questo ruolo di tramite».
Caos è il tema del prossimo numero della nostra rivista dedicata al lifestyle, in uscita il 15 giugno. Ti chiediamo, a questo punto, il tuo rapporto con il disordine e la confusione.
«Sono caotico e organizzato allo stesso tempo. Io vivo nel caos, nessuno mi ha mai cambiato e sono rimasto così. Il caos per me è quotidianità, la mia testa deve per forza riflettere su più cose. Sono fotografo, designer, insegno, sono grafico, faccio fotografie nel mondo commerciale… e sto provando a diventare pizzaiolo. Il caos è onnipresente».
C’è una frase o un concetto che ripeti spesso ai tuoi studenti?
«Da un lato dico di non prendersi troppo seriamente, in tutto. Le immagini possono sembrare complesse da realizzare, ed è anche per questo che spesso su Instagram pubblico i backstage. Voglio dimostrare quanto do-it-yourself siano quelle composizioni. Chiaramente bisogna sempre credere in sé stessi, in qualsiasi ambito, per permettersi di avanzare: è una cosa estremamente kitsch da dire, ma è così».