Uno spettro s’aggira per l’Italia: lo spettro dell’overtourism. Non si nega una parte di verità nell’immaginare lo spettro – c’è, e la vedremo – ma l’ossessività, l’estensione e l’indistinzione con cui questo fantasma viene evocato lo fa apparire una piaga sociale, un generatore di paure, qualcosa di cui liberarci, costi quel che costi.
Per altro non ci si limita all’overtourism, ma talvolta è il fenomeno turistico nella sua interezza che è descritto con toni apocalittici. Ad esempio, Ernesto Galli della Loggia, per cui chi scrive nutre quasi una venerazione (come storico della politica) ha scritto che «l’Italia è devastata dal turismo». Vincenzo Visco, ex Ministro del Tesoro, ha aggiunto che il turismo non produce reddito perché si tratta di piccole imprese familiari (da quando le imprese familiari sono un male?) perciò non serve allo sviluppo. Facile smentirlo, appena qualche giorno fa, il 31 maggio, sono usciti i dati Istat sulla congiuntura del I Trimestre 2023, quelli che hanno sorpreso tutti gli osservatori, perché l’Italia è prima in Europa, con una Germania addirittura ferma.
Vediamo meglio questi dati. Il Pil italiano cresce dell’1,9 per cento. Vediamo meglio cosa e chi fa crescere questa ricchezza. Siamo ai mesi di gennaio, febbraio e marzo, perciò prima della stagione estiva e dell’esplosione dell’overtourism. Ebbene, il settore agricolo nello stesso periodo scende dello 0,6 per cento, l’industria in senso stretto scende dello 0,5 per cento, mentre le costruzioni salgono dello 2,1 per cento. I servizi nel loro complesso salgono del 2,9 per cento e quale settore cresce più di tutti? Il settore del turismo, commercio, trasporto e ristorazione, con addirittura il 3,8 per cento in più rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. Perciò l’affermazione che il turismo non crea ricchezza semplicemente non è vera. Forse è vero che siamo al primo posto proprio grazie al turismo.
Riguardo alle imprese familiari ci troviamo da sempre davanti a un grande equivoco. È evidente che nel suo insieme l’Italia ha bisogno di grandi player aziendali (cosa saremmo senza l’Eni, senza l’Enel e senza le altre imprese così grandi). Sappiamo che nella competizione globale addirittura l’Europa ha bisogno di grandi player per vincere, o anche solo per partecipare. Tuttavia, sappiamo che il nostro paese ha avuto un poderoso sviluppo nel Secondo Dopoguerra, sorprendendo il mondo, proprio grazie alle imprese familiari e ai distretti territoriali, (i “localismi” di memoria Censis) e, ancor di più, sappiamo che le imprese familiari del turismo sono sempre state in piedi, non hanno mai creato crisi aziendali, non hanno mai pesato sulla fiscalità dello stato e non sono mai state un problema. Piuttosto, sono stati i tentativi pubblici, una loro certa grandeur (si fa per dire) che nel turismo ha creato fallimenti.
Per di più, magicamente, proprio adesso questo tipo di sviluppo della nostra hotellerie, così diversificato che nessun albergo assomiglia all’altro, è una ricchezza: in un mondo di tutti uguali, dove ogni via commerciale di ogni città del mondo ha gli stessi negozi, gli stessi brand e gli stessi prodotti, trovare l’albergo a propria misura, o almeno poter scegliere tra l’infinita gamma che è disponibile in Italia, è una grande fortuna.
Se vogliamo andare più in profondità possiamo aggiungere che, in genere, per il turismo leisure la diversificazione è un grande punto di forza, mentre per il turismo business le “certezze”, cioè l’attesa, rispettata, di servizi di standard internazionale è un punto di forza. Talvolta le due qualità si possono ritrovare nello stesso albergo. Allora che ci siano tanti e tanti alberghi familiari e tanti e tanti grandi brand internazionali.
Superiamo questi insuperati pregiudizi e veniamo al punto d’attualità. La scintilla dell’overtourism è stata accesa dai media soprattutto rispetto alle grandi città d’arte italiane: Venezia, Firenze e, parzialmente, Roma. Il punto cruciale è che il termine overtourism ha dilagato e si è esteso in automatico a ogni tipo di destinazione, persino a prescindere dal numero effettivo dei turisti o del loro effettivo essere “over”, cioè in numero superiore a quello che una singola destinazione può accogliere. Numero che è sempre difficile da stabilire.
In questa deriva senza limiti del termine overtourism, la sua stessa semantica è cambiata, tanto che non si riesce più a capire se l’avversione vada verso l’eccesso del fenomeno turistico (comunque lo si voglia o possa stabilire) o, addirittura, verso il turismo stesso, considerato in sé stesso, quasi da trattare come una sostanza deleteria, di cui se ne debba “sopportare” una minima quantità, o peggio ancora, che sia limitato alla quantità minima possibile.
Se attraverso la cruna dell’ago dell’overtourism passasse il meta-messaggio che essere una destinazione turistica è un fatto negativo, mentre finora era una corsa di ogni località a definirsi destinazione turistica, le conseguenze sarebbero molto negative sia per il settore dell’ospitalità, sia per l’economia nazionale e, soprattutto, per le economie locali. Ricordiamo che i comuni turistici in Italia sono più di tremila e che per almeno cinquecento il turismo è un settore vitale. Addirittura alcune località montane non esisterebbero neppure (sarebbero abbandonate, come avviene per quelle che non hanno turismo) se la loro economia dell’ospitalità fosse cancellata o sensibilmente ridotta.
Di solito chi è anti-qualcosa, per coerenza non ha consuetudine con quel qualcosa verso cui è contro. In questo caso non è così. E qui siamo al paradosso, perché è difficile pensare che le persone che si schierano contro il turismo di massa, o più in generale, contro il consumo turistico, si astengano poi dal fare loro del turismo, cioè viaggi e vacanze in destinazioni famose. È quasi uno sdoppiamento del sé – si potrebbe dire – perché quando il critico guarda ai turisti vede una massa indistinta, ma non vede certo sé stesso, quando tocca a lui di viaggiare: massa sono sempre gli altri.
Ovviamente la massa fa il mordi e fuggi, ma chi accusa di questo i turisti – mi chiedo – quando va a New York ci sta per settimane, o per pochissimi giorni, come tutti? Allora criticano i turisti che vedono il Colosseo, il Ponte Vecchio e sciamano solo da Piazza San Marco a Rialto (comportamenti – intendiamoci – che penalizzano soprattutto loro che si limitano a visitare quei luoghi); questi critici quando vanno a New York visitano le belle residenze dei Queens? o le spiagge davvero incantevoli e piene di charme degli Hamptons? o l’interessante Staten Island con il suo bel museo sugli italo-americani? Sospetto che frequentino anch’essi la Quinta Strada…
Lasciamo a loro stessi questi atteggiamenti malmostosi e incoerenti, che comunque fanno male al turismo, perché quest’idea che una persona con la sua ricchezza interiore, con il suo grande carico emotivo di attese («ho scelto questa città»; «ho scelto questo paese perché lo ritengo meritevole, attraente, unico»); con il rilevante peso economico che sopporta (viaggiare costa) venga trattata come un idiota solo perché “turista”. Sembrano tutti usciti dal libro di Jean-Didier Urbain, “L’Idiot du Voyage”, di vent’anni fa. Chiamiamoli ospiti e vedrete che il senso cambia.
Andiamo però dentro al problema. Lo scenario di fondo è una domanda mondiale crescente, quasi esplosiva, di turismo. Allora il problema è la selezione. Chi e come seleziona? Di solito è il prezzo. Non è giusto, ma è quel che inevitabilmente succede. Vi sono proposte migliori? Secondo punto più specifico: capiamo quando si deve parlare di overtourism. Abbiamo un indicatore oggettivo? È in rapporto alla popolazione, al numero di camere alberghiere? Dobbiamo costruirli questi indicatori. In realtà anche l’indicatore più neutrale non risolve che parzialmente il problema, perché il senso dell’over non sta in un numero, ma nella capacità di gestire e governare i flussi turistici: ci sono città che non fanno una piega a ospitare e bene un milione di persone in un mese e città che saltano per poche migliaia di ospiti in più. Nel primo caso il numero è elevato, ma nessuno lo percepisce come over, nel secondo caso lo definiranno tutti over. In verità, quello che si deve discutere è la capacità delle singole destinazioni a gestire i flussi che ambiscono ad avere.
Per farlo c’è bisogno di studio (ad esempio, cercando di capire qual è il numero effettivo degli ospiti) e di decisioni rispetto all’organizzazione della città. Un punto su questo aspetto è chiaro: gli ospiti non possono soggiornare senza un alloggio. Negli ultimi dieci anni il numero complessivo degli alberghi in Italia è addirittura diminuito: da trentaduemila settecentovent’otto (2012) a trentaduemila centonove (2022) e il numero delle camere è rimasto pressoché fermo a un milione. Dove dormono allora? Una parte dorme negli esercizi extra-alberghieri ufficiali, i cui posti-letto sono cresciuti da 2,5 milioni a 2,9 milioni, ma non bastano a colmare il divario che ci appare ogni giorno così eclatante, tra quel che si vede e quel che le statistiche ufficiali registrano. È evidente che la crescita sia dovuta all’esplosione degli affitti brevi sulle piattaforme digitali.
Dunque, se l’overtourism c’è, allora è necessariamente da collegare a questa forma di pernottamento e perciò bisognerebbe agire su quella, per cui il termine esatto dovrebbe essere l’over-affitti. L’altro fenomeno per cui crescono visibilmente gli ospiti, mentre la capacità alloggiativa della destinazione rimane pressoché ferma, è l’escursionismo, cioè si dorme in una località e si trascorre il tempo in un’altra. Il fenomeno riguarda specialmente Venezia, e anche Firenze, meno le altre destinazioni. Perciò senza numeri affidabili non si governa il fenomeno e senza un governo del fenomeno la dimensione over è ineluttabile.
Come si combatte l’overtourism nei casi in cui effettivamente c’è, e nel periodo di tempo in cui effettivamente c’è? E anche una volta che ci sia un riequilibrio anche dal lato degli affitti brevi? Come si raggiunge l’equilibrio? con quali parametri? In rapporto alla popolazione? In rapporto alle camere alberghiere? a cosa?
Assunto che tutto questo si faccia; assunto che si esca dall’indistinzione dell’overtourism per definirlo meglio e con parametri oggettivi, o quanto meno con una qualche ragione, resta tuttavia la polarizzazione fra le destinazioni turistiche e al loro interno. Un solo esempio per capirci: abbiamo in Italia seicento dieci musei in cui c’è una media di 2,7 visitatori al giorno; altri novecento novantotto musei hanno 13,7 visitatori al giorno; in sostanza, milleseicent’otto musei non arrivano a quindici visitatori al giorno e solo ventuno musei e siti archeologici che hanno una media di milletrecento settanta persone al giorno. Perciò polarizzazione estrema: alcuni musei superstar sono over e tutto il resto è under. Una cosa simile, ma meno accentuata nella verticalità delle distanze c’è per le destinazioni turistiche.
Come fare a raggiungere un maggiore equilibrio sia tra le diverse destinazioni che al loro interno, pur sapendo che i turisti non si spalmano e non si fanno programmare dall’alto? Bisogna agire con le stesse forze che determinano l’attrazione. Questa possibilità esiste. Ci sono metodi applicativi e c’è una robusta teoria al proposito, ad es. quella proposta da Thaler e Sunstein nel loro “Nudge: La spinta gentile”. Questa strategia è talmente affascinante che Obama l’ha utilizzata con la sua Amministrazione in tanti campi.
È un approccio basato sull’economia comportamentale e sulla psicologia che mira a influenzare le scelte e i comportamenti delle persone in modo sottile e positivo, senza ricorrere alla coercizione o a disposizioni obbligatorie. Sfrutta il concetto di nudge, ovvero piccoli cambiamenti nell’offerta e nella presentazione delle opzioni che possono guidare le persone verso le decisioni desiderate.
Nel turismo oggi agisce, invece, una nudge al contrario, nel senso che il meccanismo del clickbait (sappiamo che oggi tutto si fa su internet: ispirazione per il viaggio, informazione, prenotazione e acquisto) polarizza l’attenzione sulle attrazioni e sulle destinazioni più note. Un solo esempio: se voglio massimizzare l’attenzione dell’utente dovrò proporre prezzi molto bassi su destinazioni molto note. Se propongo, ad es. un albergo vista Colosseo a cinquanta euro, la proposta desta più attenzione di un albergo a trenta euro ad Arezzo. Questo accade perché il fine ultimo di qualunque sito o applicazione su internet è quella di catturare l’interesse dell’utente e fargli spendere tempo sulla rete. L’effetto polarizzante del clickbait è letale.
Qual è allora la strategia nudge per il turismo? Ad esempio, rendere interessante e imperdibile il Second best (cioè le destinazioni e le attrazioni di seconda fila, ma di valore) che sposta l’attenzione verso destinazioni meno battute, soprattutto se rafforzata dalla retorica che chi sceglie il Second best è migliore di chi sceglie il primo; agire sulla logistica, sempre sottovalutata, per far cambiare idea su dove andare (ad es. la Germania negli anni scorsi è stata la prima meta turistica dei Cinesi perché ha più voli diretti di chiunque altro); specializzare le destinazioni: ciascuna con un suo brand, un suo prodotto/mercato definito e un suo messaggio distintivo. Complicato? Nulla che non si sia già visto in altri campi, dalla moda al cibo. Basta applicare pensiero e competenza anche nel turismo, senza evocare gli spettri, o peggio, creare e sollecitare fantasie distopiche.