Il vino dei gessi(Ri)scoprire l’Oltrepò

Così vicino, così lontano, questo territorio a pochi chilometri da Milano è un luogo pieno di sorprese ma senza pedigree. Dà vita a bottiglie con la vocazione francese, che stupiscono e affascinano

Francesca Seralvo, @Tenuta Mazzolino

È uno dei luoghi enologici italiani più belli, e più produttivi, ma allo stesso tempo è uno dei posti meno glamour che possiamo immaginare. Celebre forse più per i salumi che per i vini, è invece un bacino potenziale di grandi bottiglie, a due passi (veri!) da Milano. Sottovalutato, sottostimato, decisamente poco conosciuto e un po’ bistrattato, l’Oltrepò Pavese è invece un luogo da scoprire, enologicamente e non solo.

Qui in tempi non sospetti il più grande divulgatore del territorio e del vino, Luigi Veronelli e uno dei più attivi creatori della fama della Barbera al mondo, Giacomo Bologna, hanno convinto Enrico Braggiotti, il nonno di Francesca Seralvo, attuale donna del vino di Tenuta Mazzolino, che era alla Francia che si doveva guardare. E quest’uomo solido e focalizzato, visionario e speciale, così fece, senza farsi sedurre dalle campane dell’epoca, che volevano vini pronti da bere, andanti, da vendere a ettolitri e da cui guadagnare al volo.

Lui fece esattamente il contrario: e mise da parte le bottiglie per metterle sul mercato in anni successivi, fece la sua riserva, ma soprattutto decise che al di là dell’indubbia fascinazione per il Pinot Nero, che qui è il vitigno che prevale e che determina il successo della zona, pianta tre ettari a Chardonnay, confidando nel terroir. Chiama Kyriakos Kynigopoulo, un enologo dalla Borgogna, che è greco e pare molto bravo: è il 1998, e da allora a Corvino San Quirico inizia a costruirsi una leggenda italiana, di matrice francese. I suoli gessosi di queste parti, il vitigno internazionale di grande duttilità e la mano felice di Kynigopoulo fanno il miracolo, e insieme al Noir, creano Blanc.

Un vino così non ha grandi concorrenti in zona, e la sua vocazione dichiaratamente borgognona lo rende un grande rappresentante della sua categoria. I gessi del sottosuolo, questa grande nave che si protende verso il fondovalle fanno il grosso, su uno Chardonnay che qui trova un terreno simile a quello della Champagne. Il resto lo fanno un uso sapiente dei legni e una vocazione naturale alla longevità. I vini sono dritti, hanno grande tensione e una spiccata sapidità finale, come racconta il degustatore Armando Castagno, durante una verticale che svela le annate più intriganti. Le annate pari (2016 e 2018 in testa) più di quelle dispari rivelano tutta la loro italianità, con astringenza e acidità a bilanciarsi in un equilibrio denso e possente.

Da quando Francesca ha preso in mano le redini dell’azienda la sta trasportando nella contemporaneità, con metodo e disciplina, e senza mai abbandonare la visione del nonno, e la sua passione per questo luogo, restaurato ma rimasto identico nei pavimenti, nella struttura, negli arredi, perfettamente restaurati ma senza intervenire mai nella struttura. Così come sta facendo con i vini, come spiega Stefano Malachiodi, l’enologo residente scelto da lei per mantenere la tradizione di famiglia: «Il nostro compito è rispettare l’annata ma anche lo stile del vino che si sta facendo da trent’anni. Facciamo vini diversi, ma con una matrice comune, per un progetto spontaneo e non omologato. Questo vino non è stato “costruito” per l’invecchiamento, ma è naturalmente portato a durare nel tempo». Un vino da comprare e lasciare in cantina per un po’, scommettendo come avrebbe fatto nonno Enrico, sul futuro di un luogo da rivalutare e conoscere.

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