Le incredibili vicende degli ultimi giorni in Russia richiederanno una riflessione ulteriore da parte dei partiti, riflessione che ancora non si è compiutamente ascoltata. Mercoledì 28 giugno la premier Giorgia Meloni affronterà la questione in Parlamento nell’ambito della informativa, dunque senza voto, sul prossimo Consiglio europeo del 29 e 30. Ma d’altra parte sulla questione russa la premier non ha mai avuto dubbi: con Kijiv fino alla fine.
Non è da lei che si attendono novità. Semmai sarà interessante capire se anche su questa questione la Lega, all’attacco su più fronti (dal Mes al caso Santanchè) e peraltro sempre border line sul regime di Vladimir Putin, farà sentire qualche accento diverso: il riferimento di Matteo Salvini a «una pace giusta» è in questo senso sufficientemente ambiguo. Ma ancora più interessante è cercare di capire se il mancato golpe del macellaio Prigožin, e il parallelo indebolimento dello zar di Mosca, può influenzare l’intensità della posizione del Pd e dunque segnare un’ulteriore distanza tra il Nazareno e il leader dei Cinquestelle Giuseppe Conte.
A giudicare dalla prima reazione di quest’ultimo parrebbe di sì. Dalle convulse ore di sabato, l’avvocato del popolo infatti è convinto di poter trarre nuovi argomenti per il disarmo: «Rimaniamo critici su armi e guerra». È una posizione soi disant coerente ma vieppiù assurda. Perché nel momento in cui la Wagner subisce un colpo micidiale e al tempo stesso Putin e i suoi ministri si trovano obiettivamente in una situazione complicata è esattamente il momento di non mollare, anzi, di intensificare ogni sforzo per la Resistenza e l’avanzata ucraina.
Ma Conte continua a propagandare una “pace” che in ogni caso, se ci sarà, non sarà quella che vuole lui, che è più o meno la registrazione della status quo, una posizione in asse con «la pace giusta» di Salvini. Si torna dunque a una nemmeno tanto larvata intesa gialloverde, d’altronde mai davvero finita col Papeete, soprattutto sulla guerra. Nulla di nuovo sotto il sole.
Invece, nel Pd sta accadendo (forse) qualcosa di nuovo. Mentre la segretaria Elly Schlein non sta intervenendo sulla più importante questione di questo momento storico preferendo manifestare in piazza sulla sanità e ai gay pride, è stato il responsabile Esteri del partito Peppe Provenzano a dire chiaro e tondo che in queste ore «l’unica certezza è che questa crisi rappresenta un’ulteriore conseguenza della folle e sciagurata guerra di Putin all’Ucraina». E accenti nuovi erano venuti sempre da Provenzano all’ultima riunione della Direzione: «No a un congresso permanente sulla politica estera. Bene la nettezza della posizione sull’Ucraina, che non cambierà. Ma noi dobbiamo dire più forte la parola Pace se non vogliamo regalarla agli utili idioti di Putin. Pace deve significare anzitutto “Russia go home”, condanna dell’aggressore e difesa dell’aggredito».
Se il responsabile Esteri ha sentito il bisogno di usare parola così nette evidentemente è perché ogni volta il sostegno di Schlein alla Resistenza ucraina non suona mai particolarmente assertivo e definitivo, come se alla fine delle frasi sul sostegno a Kijiv aleggiassero dei puntini sospensivi: che è poi in questo spazio grigio che riposa la ragione fondamentale per cui lei non alza il ponte levatoio, anzi, con il neutralista Conte. Certo è che questa intesa, suggellata davanti alle limonate o acque toniche che dir si voglia di Campobasso, mostra sempre di più la corda proprio davanti all’esasperarsi della vicenda ucraina. E non bastano i soliti baci sulle guance in piazza per sbrogliare quello che è evidentemente un nodo politico serio.
Davanti all’ennesimo test elettorale, stavolta in Molise, un’altra sconfitta non sarebbe esattamente un balsamo per il gruppo dirigente ma la certificazione che questo Pd, per una ragione o per l’altra, non riesce a riprendersi. Tantomeno andando a braccetto con Giuseppe Conte e con Nicola Fratoianni, limonate o meno.