Ci sono cose che a colazione, appena svegliati, nessuno vorrebbe sentire. Non le vorrebbe sentire mentre si svita il tappo del nostro spalmabile al cacao preferito, pronti a rimpinzarci di zuccheri e felicità per iniziare la giornata. Eppure ormai lo sappiamo, ed è difficile fare buon viso a cattivo gioco. La filiera del cacao, e del conseguente cioccolato, è tra le più inquinate dal punto di vista etico ed economico.
Le disuguaglianze cominciano in piantagione, dove spesso i minori sono impiegati illegalmente nelle operazioni di coltivazione e raccolta delle fave di cacao, staccati dalla propria rete sociale e senza la possibilità di ricevere un’istruzione adeguata. È il caso – soprattutto – dell’Africa Occidentale, in cui povertà, fragilità del tessuto sociale e flussi migratori interni si uniscono agli interessi economici delle aziende trasformatrici di cacao. Il risultato sono costi di manodopera inesistenti, prezzi al chilo delle fave bassi, e un circolo vizioso che si ripete. Lo racconta bene il Washington Post in un pezzo del 2019, anni dopo che alcuni tra i maggiori player del cioccolato industriale – come Hershey, Mars e Nestlé – avevano sottoscritto dichiarazioni con cui si impegnavano a contrastare il lavoro minorile nelle piantagioni da cui si riforniscono. Nonostante ciò, secondo dati riportati nell’articolo, nel 2018 sarebbero stati almeno 16.000 i minori costretti a lavorare in piantagione – sembra che, insomma, a questi buoni propositi non siano seguite azioni efficaci. Nel frattempo, l’Africa Occidentale conta ancora il maggior numero di produttori di cacao al mondo, ma i loro abitanti ne consumano solo una percentuale risibile sul consumo totale mondiale. Inoltre, i costi di manodopera tenuti bassi artificialmente impediscono la generazione di una reale ricchezza per il Paese di coltivazione.
Il sistema è stretto, ben rodato, internazionale. Ma non per questo le strade alternative sono sbarrate. Una produzione virtuosa di cioccolato passa dalla valorizzazione dell’atto agricolo che lo genera, da politiche economiche sostenibili per tutti gli attori coinvolti, e per una filiera il cui primo obiettivo sia la qualità. Una sterzata alla larga dall’industria, che metta in primo piano l’artigianalità.
«Controllare l’intera filiera del cacao, dalla piantagione alla trasformazione in cioccolato, è un lavoro immane, che richiede anni per essere finalizzato. Ma è anche, a oggi, l’unico modo per assicurarsi di supportare un mercato davvero equo, capace di immettere positività nel mondo». Evidenza sottolineata anche dal Washington Post: per le grandi aziende è quasi impossibile sapere da dove provenga davvero il cacao (o la massa di cacao) che ricevono, o quali siano le condizioni dei lavoratori che l’hanno coltivato. Le voci sono quelle di Elisa Parriciatu e Juan Rafael Trigueros Hill, fondatori di Vaicacao e produttori di cioccolato nel senso più ampio possibile: non solo chocolate maker, ma imprenditori del cacao. Che comincia, come vuole natura, in una piantagione di cacao. Precisamente a El Salvador, Paese natale di Juan Rafael, dove i due (coppia di lavoro e nella vita) si sono incontrati. Vaicacao ha sede a Olbia, nella Sardegna di Elisa. Il viaggio delle loro fave, però, comincia proprio in America Centrale, terra per eccellenza del cacao e dei popoli che lo consideravano una “bevanda associata al divino”. O almeno, fino alla scoperta, invasione e conquista del continente da parte dei colonizzatori spagnoli. Da lì, le coltivazioni di cacao furono esportate in altre zone del mondo colonizzato (come l’Africa, appunto) e lentamente le piantagioni del Centro America furono convertite al più redditizio caffè.
«Vaicacao è nata innanzitutto dalla volontà di valorizzare il patrimonio storico e culturale di El Salvador intorno al cacao, spesso oscurato da quello di vicini più “famosi”. La verità è che tutti i popoli che convivevano in quell’area erano affini, e il cacao e la sua tradizione sono sempre stati una parte integrante dell’identità del moderno El Salvador. Volevamo valorizzare il territorio e la sua gente, e volevamo farlo in modo etico e sostenibile. Siamo partiti dalla finca (tenuta, ndr) del padre di Juan Rafael, che aveva già avviato la riconversione al cacao dopo che per anni avevano prodotto caffè. Quando le piante sono state colpite dalla roya, fungo parassita che provoca una malattia conosciuta come “ruggine del caffè”, ha capito che era il momento di tornare a scommettere su qualcosa di più vicino alla loro identità». Juan Rafael viene coinvolto nel 2009, l’arrivo di Elisa fa allargare il progetto ancora di più, e allora: Vaicacao.
«All’inizio volevamo vendere fave di cacao in grani. Sarebbe stata una fornitura veramente etica e di qualità perché controllata da noi dal minuto zero della coltivazione e del raccolto. Ma ci siamo subito scontrati con il primo scoglio di questo approccio: la volontà delle aziende di spendere il meno possibile per la materia prima. E il costo del nostro lavoro, e di quello delle persone che lavoravano con noi, non era compatibile con le loro aspettative».
Da lì, Elisa e Juan Rafael capiscono che la strada è una sola: prendere sotto di sé l’intera filiera, diventando produttori, creando valore aggiunto e unendosi ad altri produttori virtuosi del Centro America. Insieme, hanno implementato una modalità di coltivazione e produzione virtuosa, che riconosce il giusto valore al lavoro agricolo dietro la produzione del cioccolato e che lavora in agroforesteria, ovvero tramite un approccio sostenibile che combina la coltivazione del cacao con la presenza di alberi autoctoni e piante complementari all’interno dello stesso sistema. Dal 2016 sono in Sardegna, per massimizzare le opportunità produttive. Essere artigiani del cioccolato in una delle zone più mediterranee d’Italia sembra contro logica, e invece: «Con piccole accortezze di conservazione, il nostro cioccolato è perfetto anche per i mesi caldi. Prova ne è che abbiamo due punti in cui lo vendiamo agli aeroporti di Olbia e Alghero, all’entrata e all’uscita, e poi presso alcuni hotel e operatori enogastronomici selezionati. E vediamo che ai viaggiatori fa sempre piacere. Questo perché il nostro obiettivo come produttori è un cioccolato a due ingredienti: zucchero e cacao, senza aggiunta di grassi extra, che poi sarebbero il burro di cacao. Questo è una differenza abissale quando si tratta di gustarsi il cioccolato d’estate».
Un cioccolato dunque il più “puro” e il meno lavorato possibile, che si inserisce nell’ampia filosofia di recupero della tradizione del cacao mesoamericano. Un percorso di cui fa parte anche un altro dei prodotti di Vaicacao: il cacao cerimoniale. «Il cacao cerimoniale è cacao in purezza che consigliamo per la preparazione delle bevande calde. Si aggiunge solo acqua, erbe o spezie a piacere secondo il gusto, come avrebbero fatto nelle antiche tradizioni americane. Il risultato è una bevanda spumosa, aromatica, deliziosa. La cioccolata calda europea è arricchita, forse pure troppo, con latte e addensanti vari. Noi vogliamo proporre un prodotto autentico, che faccia riscoprire il valore del cacao in quanto alimento. Ancora una volta, parte tutto da qualcosa che c’era già, e di cui rischiamo di perdere la memoria. E poi il cacao è un alimento complesso, ricco di elementi preziosi per il nostro corpo. Non per nulla le popolazioni mesoamericane lo usavano anche come medicina, o per entrare in contatto con le loro divinità».
Complessità e attenzione che si ritrovano anche nel resto della linea di prodotti Vaicacao, composta per la maggior parte da tavolette studiate attentamente, di forma quadrata. Si va da un cioccolato Tlaloc 100% fondente di El Salvador a un Lenca 80% El Salvador aromatizzato con fiori di lavanda, e poi un Cuyancùa 72% El Salvador arricchito con Specialty Coffee, ma anche cioccolati con un tocco sardo. È il caso del Lenca 80% El Salvador con Fleur de Sel di Sardegna, o del Tlaloc 80% dolcificato con polvere di datteri e reso goloso con l’aggiunta di bacche di mirto. «Non volevamo fare la classica tavoletta da golosi. Come produttori bean to bar vogliamo assicurarci che l’aroma del nostro cacao sia espresso al massimo. Per i nostri prodotti abbiamo uno shop online con cui cerchiamo di vendere il più possibile, al momento siamo orientati più alla vendita al consumatore che ad altri produttori come per esempio gelaterie o pasticcerie. Questo perché speriamo che Vaicacao possa essere una piccola rivoluzione, e per farlo vogliamo cominciare con il conquistare le persone e informarle, perché spesso il mondo del cacao viaggia sui grandi stereotipi. A volte abbiamo paura che il nostro percorso sia troppo complicato, ma poi ci diciamo: appena assaggeranno capiranno la differenza. E in effetti avviene sempre così: quando qualcuno assaggia il nostro bean to bar, si accorge subito della differenza».
Che forse, alla fine, è la soddisfazione maggiore. E per il futuro? «Per il futuro ti direi che partiamo dal presente, ovvero dal risultato già incredibile di essere riusciti a fare del cacao la nostra vita. All’inizio non era scontato. E abbiamo già tante altre persone che, con noi, hanno intrapreso questa importante strada di cambiamento, tante persone e realtà produttrici di cacao con cui lavoriamo ogni giorno. Per domani, speriamo di riuscire a espandere ancora questo progetto, e di riuscire a comunicare sempre meglio la storia e la cultura, anche agricola, del territorio su cui lavoriamo. E soprattutto di promuovere il cacao e dunque il cioccolato dell’America Centrale, ancora troppo succube della fama delle origini che si conoscono da più tempo, per esempio quelle africane. La verità è che, purtroppo, la grande industria ha reso la qualità di quei prodotti drasticamente inferiore, non avendo a cuore altra qualità se non quella del profitto». Come ricorda The Chocolate Journalist aka Sharon Terenzi, giornalista ed esperta di cioccolato, potrebbe essere l’anno giusto per (ri)scoprire alcune origini di cacao dimenticate. Tra cui proprio la salvadoreña.
Qualità dunque, umana, ambientale e di prodotto. Queste le parole d’ordine di Vaicacao. Anche in Sicilia però, l’altra grande isola del Mediterraneo italiano, c’è chi alla qualità del cioccolato sta molto attenta. È Elvira Roccasalva, titolare di Donna Elvira, un opificio di cioccolato artigianale a Modica che, come da tradizione della città, produce cioccolato lavorato a freddo, non concato e quindi dal sentore più “grezzo” in bocca – il famoso cioccolato di Modica, dal 2018 riconosciuto come Igp dall’Unione Europea. La storia di Donna Elvira comincia nel 1999, quando Roccasalva comprò una precedente pasticceria specializzata in produzione dolciaria modicana. Da lì, l’amore per il cibo degli dèi è fiorito, e si è fatto indispensabile, tanto da diventare il principale prodotto di Donna Elvira. E portando Roccasalva e la sua creatura a diventare un potente apripista nella storia del bean to bar siciliano.
«Già poco dopo aver rilevato l’attività mi chiedevo: ma è possibile che non ci sia un modo migliore per controllare la qualità della materia prima di cui ci riforniamo? La domanda veniva da un’osservazione semplice: era difficile trovare materie prime già parzialmente lavorate di ottima qualità, e spesso ho dovuto abbandonare un fornitore con cui mi ero trovata bene per anni perché la qualità cominciava, dopo un po’, a calare. All’epoca il movimento del bean to bar non aveva ancora raggiunto l’Italia, in più i vecchi macchinari per lavorare direttamente le fave erano pensati per produzioni industriali, e per noi sarebbero stati un investimento non sostenibile. Poi, quando abbiamo capito come potevamo riorganizzarci per ottenere un prodotto di qualità superiore, e quando sono arrivate sul mercato macchine più piccole, non abbiamo esitato un secondo».
A parlare è proprio Elvira Roccasalva, un’istituzione quando si parla di cioccolato di Modica e un’artigiana a tutto tondo, di una scuola che dice che, se non puoi conoscere il prodotto che trasformi a tutto tondo, allora la qualità del tuo lavoro ci perde. «In più, noi partivamo già da una posizione diciamo privilegiata, perfetta per esaltare le qualità di un ottimo cacao. Lavorando la massa a freddo secondo la tradizione modicana, infatti, l’aroma della materia prima rimane pressocché intonso. Quindi il nostro vantaggio nel seguire per intero il nostro prodotto, dalla fava alla tavoletta, è quello di poter offrire al cliente non solo il massimo della qualità, ma anche un prodotto di pregio, capace di trasmettere tutto il valore delle azioni di agricoltura che stanno dietro una tavoletta di cioccolato. Ovviamente, questo comporta un innalzamento del costo del prodotto, perché, nonostante quello che ci può dire l’industria, la cheap quality non esiste».
Colpisce molto la scelta di innestare la filosofia del bean to bar nella produzione modicana. Uno start-upper della Sylicon Valley direbbe forse che Roccasalva è disruptive, un vulcano che cambia le regole del gioco. E spesso chi mette in discussione la tradizione deve muoversi in solitaria. «Una volta riconvertita la produzione a bean to bar ho fatto un piccolo evento open doors per presentare la nuova produzione, un giorno dedicato ai colleghi, un giorno dedicato al pubblico e alle scuole alberghiere. Dei colleghi si son presentati in tre, e nessuno apparteneva al Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica. I primi tempi qualcuno diceva, solo commentando i pochi annunci che avevo dato della cosa, che non era vero che facessi bean to bar. Poi ora molti hanno messo su la linea bean to bar, i prodotti della concorrenza li assaggio regolarmente ma posso dire molto serenamente che la differenza con noi si sente ancora. Credo che parte del motivo sia che io penso alla qualità della campionatura di fave che ricevo, prima di tutto. Mai al prezzo. Il prezzo è l’ultima delle preoccupazioni. Tanto, se decidi che vuoi fare qualità a questo livello, non lo fai per arricchirti».
Un cambio di paradigma dunque, ma anche della mentalità dietro la produzione di cioccolato. In questo processo, un passaggio è fondamentale, sottolinea Roccasalva, ed è quello della formazione. Non solo del cliente finale.
«Da me vengono tanti studenti delle scuole alberghiere o dell’alta formazione gastronomica, ho ospitato più volte anche studenti dell’Alma. In queste occasioni io cerco sempre di non parlare tanto di Donna Elvira, non metto mai il “noi” prima, tanto per quello ci pensano i prodotti. Invece, credo che sia fondamentale riuscire a trasmettere il valore del prodotto che si trasforma, e come l’essere bean to bar può aiutare a creare un prodotto di qualità. Voglio parlare di varietà di cacao, di aromi, di lavorazione. Alla fine è questo che conta».
Lo dimostra la selezione di Donna Elvira, dedicata interamente al cioccolato monorigine, a volte impreziosito con piccoli aromi come fiori d’arancio, vaniglia, nocciole e mandorle. Non mancano altre chicche della produzione modicana, come il torrone, la frutta martorana, e una bella selezione di marmellate.
Una via più etica, più buona, per il cioccolato c’è. La difficoltà sta nell’implementarla su larga scala, e nel dirci chiaro e tondo, allo specchio, che il sistema produttivo a cui siamo abituati non è fatto di bambagia. Nel frattempo, i fari come Vaicacao e Donna Elvira indicano la rotta per il futuro. Sta ai naviganti tracciare le mappe.
Fotografie @Vaicacao