Su dal CarroccioLa controversa autonomia differenziata e la lenta risalita di Salvini che innervosisce Meloni

Il segretario della Lega non cede sulla riforma per dare più poteri alle Regioni del nord e approfitta dei guai giudiziari in Fratelli d’Italia per togliere qualche percentuale alla presidente del Consiglio, che non può scaricare completamente Santanché e La Russa perché i loro voti pesano molto, soprattutto in Lombardia

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L’argomento è considerato poco sexy e così l’autonomia differenziata sta transitando nella Commissione Affari costituzionali del Senato nel più assoluto silenzio. Eppure è una materia destinata a cambiare il volto istituzionale del Paese, e forse della stessa maggioranza di governo, insieme a pochi altri temi come il Pnrr con i suoi stress test europei, rate che non arrivano, revisioni che non si definiscono. Come la riforma della giustizia, la chimera del Cavaliere che adesso Giorgia Meloni vuole far diventare realtà. Del resto, dice Francesco Lollobrigida, «siamo noi gli eredi di Berlusconi», con un doppio senso lampante ovvero siamo noi quel pezzo di centrodestra che va da Forza Italia e Fratelli d’Italia destinato a rimanere insieme anche in Europa dopo il voto del 2024. La Lega invece rimarrebbe ancella in Italia, esclusa a Bruxelles e a Strasburgo perché con fascisti e nazisti mai, parola di Antonio Tajani.

Ma torniamo al punto, benché tutto si tiene e si sentono scricchiolii e rumori strani nel motore della maggioranza. L’autonomia regionale, quella differenziata che Matteo Salvini vorrebbe per la campagna elettorale delle Europee, con il fiato sul collo dei governatori, a cominciare da quello Veneto Luca Zaia. Che in più occasioni ha ricordato che il destino del governo è legato all’autonomia. 

Ogni tanto se ne dimenticano in Parlamento, nei partiti, nei media. Spesso il tema risorge all’attenzione quando si dimettono alcuni costituzionalisti, come Giuliano Amato e Franco Bassanini, dalla commissione Cassese. Poi l’argomento si inabissa. In Commissione però stanno andando avanti e vengono fuori cose incredibili, per esempio che Fratelli d’Italia presenta emendamenti su emendamenti per precisare, cesellare, ritardare. Emendamenti per impedire la devoluzione dell’istruzione, delle reti energetiche, delle infrastrutture. Insomma gli amici della premier fanno le pulci alla riforma voluta fortissimamente dalla Lega, battaglia storica iniziata nei lontani anni Novanta con le macroregioni e la devolution, per arenarsi sempre sulle spiagge di qualunque coalizione al governo.

Si è arrivato al punto che lo stesso presidente della Commissione Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, abbia detto che il vero nodo è il mostruoso trasferimento di ottocento funzioni da trasferire dai ministeri alle Regioni. Per cui ci vuole gradualità, «anni e anni» di pazienza. Allora, buona notte campagna elettorale leghista per fare il pieno almeno al nord. Da qui la minaccia di ieri da parte del vice segretario della Lega, Andrea Crippa: «Si aprirebbe un serio problema nella coalizione se l’autonomia fosse bloccata».

Ma a Salvini conviene veramente far vedere agli elettori del sud che le regioni del nord si cuccano decine di competenze con relative entrate fiscali e finanziarie, prosciugando le casse dello Stato? Conviene lasciare generici i criteri dei Lep, i Livelli essenziali di prestazione, che senza soldi andranno a incidere sui diritti civili e sociali di tutti i cittadini? Conviene dare, anche solo strumentalmente, all’opposizione un’ascia di propaganda per dire che si penalizzano i meridionali che ancora votano? Basterà andare in giorno con il plastico del Ponte di Messina per fare il pieno di voti tra Calabria e Sicilia? Qualcosa da ridire sull’autonomia ce l’hanno pure i governatori di quelle Regioni, Renato Schifani e Roberto Occhiuto. 

La vicenda è bella aggrovigliata. Meloni non vuole dare un vantaggio a Salvini, che lei vuole escludere dal potere europeo per allearsi con i Popolari e, se i numeri non ci saranno, anche con i Socialisti. Un’ipotesi su cui infatti sta insistendo il capo leghista per mettere in difficoltà la presidente del Consiglio. E bombardando il quartier generale, l’ex Capitano sta rimontando nei consensi innescando quel travaso di voti, sempre dentro la colazione, che negli ultimi cinque anni ha visto il Carroccio deperire a favore di Fratelli d’Italia. Al punto che quel «Salvini premier» che Matteo aveva messo nel simbolo, immaginando il volo verso Palazzo Chigi, gli è rimasto conficcato nell’esofago come una lisca di pesce. 

Ora, però, il sondaggio di Alessandra Ghisleri pubblicato ieri da La Stampa conferma questo nuovo trend inverso: grosso modo quello che perde Meloni se lo prende la Lega, mentre Forza Italia, dopo l’effetto funerale, è ripiombato al sei per cento. È chiaro che per Salvini la strategia intrapresa sta dando i suoi frutti. Garantire stabilità e governabilità ma distinguendosi ogni volta che si può. Riforma della giustizia? Sì, ma con giudizio, senza guerre di religione contro i magistrati che gli eredi politici di Berlusconi vorrebbero ingaggiare. Tagliare i fondi del Pnrr? Non ce n’è bisogno, «li diano a noi, anzi a me», afferma Salvini, «io so cosa farne come spenderli, caro Raffaele (Fitto)». Anzi, aggiunge Crippa, «con una gestione leghista ci sarebbe un’altra garanzia di efficienza».

Fitto sistemato. A Salvini non è mai stato simpatico per due motivi. Il primo perché ha accentrato tutti i poteri per nome e per conto della Meloni, levandoli dalla disponibilità del ministero dell’Economia dove siede il “presunto” leghista, Giancarlo Giorgetti, che non risponde sempre alle chiamate all’ordine del suo capo, ma comunque sta lì anche in quota Carroccio. Il secondo motivo di antipatia è vecchio, risale alle ultime regionali della Puglia quando Meloni impose al centrodestra la candidatura a presidente di Fitto, cosa che Salvini cercò di osteggiare in tutti modi. Nella campagna elettorale, i leghisti locali e lo stesso Salvini dicevano peste e corna di don Raffaele quando scendevano dai palchi dei comizi. 

Il presente è che il leghista dice ai suoi parlamentari e ministri di apparire politici del fare: non un euro dovrà essere sprecato e lasciato a Bruxelles. Così Salvini sta risalendo nei sondaggi, e approfitta dello scivolone degli uomini e delle donne di Meloni, a cominciare da Daniela Santanchè, sempre più indifendibile. Se non fosse che la ministra del Turismo tiene in mano il feudo lombardo insieme a Ignazio La Russa, sarebbe già a casa. 

Fratelli d’Italia deve difendere il fortino, provocando però una sofferenza e una difficoltà di immagine a Meloni. Una difficoltà evidente quando ieri, alla conferenza stampa dopo il vertice Nato, ha confermato di condividere pienamente la famosa nota “fonti Palazzo Chigi” in cui la scorsa settimana si indicavano manovre politiche di una parte della magistratura per condizionare il voto europeo. E poi il colpo di scena: la sconfessione del presidente del Senato La Russa. Lei «solidarizza»  con la ragazza che ha denunciato Leonardo Apache La Russa di stupro, e mai avrebbe assolto il figliolo a priori. 

La presidente del Consiglio ha capito che si è aperta una faglia che colpisce l’immaginario delle famiglie. Il figlio del potente che fa come il figlio di Beppe Grillo che avrebbe abusato di una figlia di qualcun altro. Difende invece Santanchè che ha saputo dell’avviso di garanzia mentre parlava in Parlamento, facendo saltare le regole. È chiaro, però, che nell’asse lombardo Daniela-Ignazio qualcosa si è incrinato.

Di questo Salvini ne approfitta, se è vero quello che fa notare sempre Ghisleri: Santanchè è un brand, ha un valore elettorale peculiare che, una volta colpito, può nuocere al suo partito. È una vicenda non proprio da underdog, che riguarda il lavoro precario, la cassa integrazione di lavoratori costretti a lavorare mentre la ministra volteggiava al Twinga. Il sondaggio forse comincia a rilevare qualcosa e magari non è solo la questione Santanchè-Delmastro-La Russa (padre e figlio) a fare effetto. I fattori possono essere tanti, l’inflazione, il caro-carrello, i mutui a tasso variabile che schizzano in alto, il taglio del reddito di cittadinanza, l’immigrazione che non si ferma. Un po’ di schiuma si comincia ad accumulare sulla spiaggia del governo, che comunque ancora gode di un alto consenso, in particolare la stessa Meloni.

Quel sondaggio di Ghisleri comunque è un campanello d’allarme per Meloni. Per cui dare un vantaggio a Salvini sull’autonomia regionale, mentre la riforma costituzionale dell’elezione diretta del presidente del Consiglio agonizza, sarebbe troppo. In Commissione Affari costituzionali infatti sta succedendo di tutto e tutto viene tenuto in ombra. Come, questa volta dal governo, vengono tenute in ombra le prospettive dei conti per l’autunno. Senza la terza e la quarta rata del Pnrr, la prossima legge di bilancio sarà miserella. Proprio in direzione d’arrivo delle elezioni Europee.