Piccolo DragoLa lezione eterna di Bruce Lee sulla libertà e la creatività del combattimento

A cinquant’anni dalla morte dell’artista marziale più famoso del mondo, Michele Martino racconta in un libro (pubblicato per 66thand2nd) le sue abilità fisiche e la capacità di superare le barriere culturali

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Quando penso a Bruce Lee, che di James Lee era un grande amico (ma non un parente), mi torna sempre in mente la prima volta in cui l’ho visto, per fortuna su un grande schermo, quello del Reale di Roma, cinema storico, glorioso, trasformato più tardi in multisala, che oggi versa in stato di semi abbandono in fondo a viale Trastevere, con le porte a vetri oscurate dai graffiti e accanto un display digitale su cui scorrono pubblicità e trailer di film che forse nessuno andrà a vedere, per oggettivo disinteresse, o perché è più comodo aspettare che passino sulla (mica tanto) piccola (e interattiva) tv di casa.

Ricordo che siamo entrati a spettacolo iniziato, come si usava allora. Io, mio padre e mio cugino Marco. Il film era quello girato in parte a Roma, con il duello finale al Colosseo, e Chuck Norris nel ruolo del cattivo. L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. Eravamo alla fine dei Settanta, o l’inizio degli Ottanta, io e Marco avevamo non più di sette o otto anni (oggi il film è vietato ai minori di quattordici). Ci siamo infilati tra le pesanti tende vermiglie del Reale, noi bambini davanti, con mio padre dietro, e siamo entrati nella sala buia. Abbiamo preso posto in una fila libera. Era uno spettacolo di seconda, anzi, terza, quarta o quinta visione. I sedili erano di legno. Lo schermo mi sembrava enorme, e noi lo guardavamo col naso in su. Al centro del grande telo iridescente c’era un uomo vestito di scuro, con gli occhi fiammeggianti, che allargava un braccio per invitare i suoi amici a farsi da parte. A stare indietro. Avrebbe accettato lui, da solo, la sfida di un’intera banda di criminali. «Vi interessa il kung fu?» diceva. «Sono qui per insegnarvelo». Dopodiché, in controtempo sull’attacco dell’avversario, colpiva con un calcio uno sgherro un po’ sovrappeso, con la barba e l’aria strafottente. Lo stesso che un attimo prima aveva steso in quattro e quattr’otto un «lottatore cinese», sfottendolo con una risata mentre l’altro precipitava nel mondo dei sogni, umiliando lui e la sua gente. I criminali avevano atteggiamenti e abiti «occidentali», due erano bianchi, due neri.

A quel tempo, ovviamente, mi sfuggivano i sottintesi di quel curioso confronto etnico, così come ignoravo che quegli attori fossero angloamericani chiamati a interpretare un branco di improbabili malavitosi romani, e che tutta la scena fosse girata in studio, a Hong Kong, tra scenografie di cartapesta. Nel frattempo mio padre aveva approfittato di un istante di pausa per sussurrarci che il tizio vestito di scuro con gli occhi fiammeggianti era Bruce Lee. Nel film si chiamava Chen. E lui un attimo dopo ruotava su sé stesso con una gamba al cielo per colpire di nuovo il malcapitato di prima, che crollava a terra come un sacco di patate. Gli amici di Chen, camerieri di un ristorante cinese e maldestri praticanti di karate, erano felicissimi che lui li avesse difesi. Qualche scena più tardi, Bruce Lee dava a tutti loro un saggio della sua arte, sempre lì sul retro del ristorante, in mezzo ai fondali dipinti. Uno degli amici, per proteggersi, si aggrappava a un grosso cuscino imbottito. Chen lo fissava per una frazione di secondo, faceva gli occhi della tigre, o meglio, del drago, si bilanciava sulle gambe e partiva, assestando un calcio al centro del cuscino. Il tipo che lo abbracciava finiva per essere scaraventato, al rallentatore, dopo un volo orizzontale di un paio di metri, contro una pila di scatole di cartone che gli crollava tutta addosso.

«Ti prego, Chen, fammi un favore,» esclamava allora il capocameriere, il più goffo e pingue del gruppo «insegna anche a me a tirare calci».
«Ehi,» lo rimbeccava un compare «non hai detto una volta che l’esercizio fisico non serve a niente?».
«Ma io mi riferivo al karatè giapponese. Questa è roba cinese».
L’altro a quel punto sembrava convinto, perché si toglieva la giacca dell’uniforme da karate e diceva agli amici, che lo imitavano entusiasti: «Beh, ragazzi, abbandoniamo anche noi il karatè, e prendiamo lezioni da Chen. Impariamo il kung fu».

A quel tempo, naturalmente, ero troppo piccolo anche per cogliere le sottigliezze di un dialogo del genere, le frecciate ai rivali giapponesi, la retorica del nazionalismo cinese. Per me il messaggio era solo uno: il kung fu è un’arte marziale superiore a tutte le altre e Bruce Lee il più grande combattente sulla faccia della Terra. Ero talmente piccolo che quando mio padre, alla fine del film, è uscito per andare in una cabina a telefonare a mia madre per avvertirla che lo avremmo rivisto tutto da capo, io avevo un po’ di paura a rimanere lì da solo, nella sala vuota, illuminata a giorno. Per fortuna c’era mio cugino. Perciò non potevo nemmeno sapere che nella realtà Bruce Lee non avrebbe mai combattuto in quel modo. Né potevo immaginare che «kung fu» era solo un’espressione – per alcuni impropria – che racchiudeva una miriade di stili diversi. Né che le mosse che avevo ammirato sullo schermo potevano chiamarsi «kung fu» solo di nome, per comodità, ma somigliavano semmai al tae kwon do coreano. Né che il copione lo avesse scritto Bruce Lee in persona, che probabilmente ci aveva infilato quelle battute solo per compiacere i suoi connazionali, il pubblico di Hong Kong, a cui la pellicola era inizialmente destinata.

In un’intervista registrata solo qualche mese dopo l’uscita del film, nel 1973 – nota come «the last interview» perché si ritiene sia l’ultima che abbia rilasciato prima di morire –, Bruce si sentì chiedere dal giornalista britannico Ted Thomas di esprimere un giudizio sui diversi sistemi di lotta. «Torniamo un attimo al combattimento,» gli dice Thomas «perché, che ti piaccia o no, è con quello che ti identifichi al momento. Esistono tanti stili di combattimento, karate, judo, boxe cinese, e c’è una domanda che ti avranno già fatto centinaia di volte: quale pensi sia il più efficace?». «Vedi,» replica Bruce, con la sua voce sibillina «la mia risposta è che non c’è un segmento [più] efficace di una totalità. Con questo voglio dire che personalmente non credo nella parola “stile”. Solo se gli esseri umani avessero tre braccia e quattro gambe, o comparisse un gruppo di individui strutturalmente diversi da noi, potremmo avere uno stile di combattimento diverso. Di base abbiamo due gambe e due braccia, l’importante è usarle al massimo in termini di direzione: linee dritte, linee curve, linee tonde». C’è il pugilato che si serve delle mani, continua Bruce, il judo che si serve delle proiezioni. «Non voglio denigrarle, ma dire soltanto che è a causa degli stili che le persone sono separate. Non sono unite perché lo stile è diventato la legge».

«Non credo più negli stili» aveva detto anche in un’altra intervista – nota come «the lost interview» –, con Pierre Berton, nel 1971. «Non credo che esista qualcosa come un sistema di combattimento cinese, o un sistema di combattimento giapponese, o un qualsiasi altro sistema di combattimento». E ancora: «Gli stili tendono a separare gli uomini, perché hanno le loro dottrine, e la dottrina diventa il vangelo, che nessuno può più cambiare. Ma se non hai uno stile, puoi dire: Eccomi qui, sono vivo, come posso esprimermi in modo totale e completo?». […]

C’è una famosa poesia di Kipling, La ballata dell’Est e dell’Ovest, ambientata in una remota regione dell’India coloniale, che racconta la storia di un indigeno dalla pelle scura che ruba il cavallo di un ufficiale britannico, il quale lo insegue per recuperare l’animale. «Oh, l’Est è l’Est e l’Ovest è l’Ovest, e mai i due si incontreranno» sono i versi iniziali della ballata, citati spesso per indicare l’incompatibilità tra Oriente e Occidente, impossibile da ricomporre. La poesia si chiude però con i due uomini, l’indiano e l’inglese, che si ritrovano faccia a faccia e giungono a una tregua, scambiandosi segni di mutuo rispetto. Perché nella realtà di un duello non possono esserci più né Oriente né Occidente, né confini, né distinzioni di razza, né certificati di nascita. Credo che Bruce Lee avrebbe sottoscritto. Tutta la sua ricerca sta lì a testimoniarlo. Una ricerca tesa a superare le barriere etniche, stilistiche, geografiche, a spogliarsi dei rituali, delle forme codificate, a dimenticare tutto ciò che ci divide, alla ricerca di una verità intima, della propria essenza, nel momento presente; cioè, nel suo caso, nelle condizioni concrete di un combattimento.

Le sue risposte a Thomas e a Berton erano il frutto di un lungo percorso, di una lenta maturazione. E nel formulare quelle parole, in ogni caso, Bruce Lee non stava attingendo solo al suo lavoro, alla sua esperienza, e nemmeno alla poesia di Kipling, ma stava parafrasando neanche troppo nascostamente il maestro che ammirava più di tutti, Jiddu Krishnamurti. Questo fa sorgere una domanda: Bruce Lee era davvero un filosofo, un mistico, o solo un pensatore di seconda mano, se non addirittura un plagiario? Alla prima domanda ne possono seguire anche altre, le solite che vengono tirate fuori quando si parla di Bruce Lee. Sapeva davvero combattere come nessun altro, o era solo un attore con qualche rudimento di arti marziali? Sapeva almeno recitare, o era solo un ragazzo con una bella faccia e un corpo scolpito in palestra, capitato al posto giusto al momento giusto? Incarnava sinceramente la fierezza del popolo cinese, o era solo un hongkonghese occidentalizzato che proprio per questo piaceva alle platee americane ed europee?

Che rapporto c’è tra lui, la persona in carne e ossa, e il personaggio dello schermo, l’icona cinematografica, l’eroe – violento? maschilista? omoerotico? – che prende serenamente a calci nel sedere chiunque gli si pari davanti, bianchi, neri, americani, giapponesi, thailandesi, russi, italiani, gangster, imperialisti, colonialisti, capitalisti? Le domande, i dubbi che circondano la sua vita, paradossalmente si estendono alle circostanze misteriose della sua morte. È stato davvero un incidente? Provocato da cosa, da un farmaco, dalla marijuana, da un colpo di calore? O è stato ucciso da qualcuno? Ma da chi? Dalle Triadi, cioè dalla mafia cinese? Dai maestri di kung fu che condannavano la sua ribellione? Da un’amante gelosa? Dal suo socio in affari? Da un regista invidioso dei suoi successi? Da un produttore rivale minacciato dalla sua travolgente ascesa?

[…] Mentre scrivo queste righe, nel maggio del 2023, mi viene in mente che non può esserci momento meno opportuno di quello in cui viviamo per parlare di arti marziali, con le immagini dei carri armati che cannoneggiano le campagne ucraine, dei droni che bersagliano i palazzi, a ricordarci ogni giorno la realtà della guerra, al di là di qualsiasi fantasticheria sulla nobiltà del combattimento. Provo a mettere da parte le esitazioni, i timori, e accettare l’aporia insita nella definizione di «arti marziali», di cui ci serviamo per tenere insieme, in italiano come in inglese, francese, spagnolo, tutti i metodi di lotta originari dell’Asia; augurandomi che il mio (e il vostro) interesse non scada mai in un gratuito compiacimento della violenza, di nessun tipo, ma esplori semmai il primo termine dell’espressione. Non «marziale», dunque, cioè guerresco, militare, bellico o bellicoso, sinonimi di morte e distruzione. Ma «arte», parente di libertà e creazione, dal latino ars, la cui radice indoeuropea Ṛta («verità», «ordine cosmico»), formata da Ṛ («muoversi») e *ar («in modo appropriato»), è la stessa che ha dato vita alle parole greche harmos e therapeia, da cui armonia e terapia. Il cambiamento, diceva Krishnamurti (una tra le sue tante meravigliose riflessioni), si ha soltanto quando siamo in grado di vedere le stesse cose con occhi diversi.


Tratto da “Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago”, di Michele Martino, edito da 66thand2nd, pagine 320, € 19,00.

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