Tecno arteDavid Bowen e la ricerca dell’equilibrio tra tecnologia, intelligenza artificiale e natura

È il maestro dell’arte cinetica americana e riflette sul rapporto artefatto tra robot e ambiente. Il risultato è un’intervista sul primato di quest’ultimo sull’essere umano e sull’imperfezione dei mezzi informatici che oggi abbiamo a disposizione

sized bowen, Gunner Knechtel Photography, CCCB, Barcelona

David Bowen è uno tra gli artisti più originali e innovativi della scena statunitense dell’arte contemporanea. La sua arte fonde la natura alla tecnologia e all’informatica perindagare il senso più profondo della perfezione. Le sue opere sono spesso formate da installazioni cinetiche in cui il movimento è determinato dall’interazione tra la natura e parti meccaniche, programmate dall’artista. L’artista “innesca” un microcosmo e poi sta a guardare. Le sue opere sono quindi fortemente concettuali e strumenti per stimolare una riflessione in chi le osserva.

Iconiche sono le sue opere Cloud Piano e Plant bot. In quest’ultima i destini di una pianta e di un computer sono interdipendenti. Un computer è “addestrato” a riconoscere quando la pianta, a cui è collegato, ha bisogno di acqua in base all’analisi delle immagini della pianta stessa. Se l’impianto appare sano, il computer manterrà un reggimento dell’acqua regolare, altrimenti tenterà di aiutare la pianta adattandosi a quelli che “pensa” siano i suoi bisogni. Come il computer diventa più intelligente e quindi più abile a prendersi cura della pianta, la pianta plausibilmente diventerà più rigogliosa. Ma basta l’analisi delle immagini a prevedere e determinare se la pianta è sana o meno?

Plant Bot, David Bowen

Dopo gli studi all’Heron of Art di Indianapolis, nel 2004 Bowen consegue un master in Belle arti, si laurea presso l’Università del Minnesota a Minneapolis, seguendo le orme del maestro dell’arte cinetica americana Guy Baldwin. In tale contesto comincia a collaborare con il dipartimento di ingegneria meccanica ed entra in contatto con i micro-controller, la robotica e la programmazione, che diventano presto gli elementi cardine di tutta la sua ricerca artistica. David Bowen è stato insignito due volte della borsa di studio McKnight e ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Grand Prize giapponese, la Menzione d’onore all’Ars Electronica di Linz e il Terzo Premio al concorso internazionale Vida Art e Artificial Life.

Suoi lavori sono stati esposti in tutto il mondo: dalla Fundación Telefónica Madrid, all’Eyebeamdi New York, all’Itau Cultural di Sãn Paulo (Brasile) al The Israel Museum di Gerusalemme. Abbiamo voluto intervistarlo a distanza per riflettere sulla sua arte e sul rapporto essere umano tecnologia-futuro, alla luce anche dell’avanzata dell’intelligenza artificiale.

Plant Machete (detail1), Gunner Knechtel Photography, CCCB, Barcelona

Mescoli l’arte con la scienza, la tecnologia e soprattutto l’informatica. Da dove nasce questo interesse e alla fine cosa prevale di più?
Una buona domanda per cominciare. Penso che tutto inizi con una grande fascinazione per il mondo naturale. Generalmente associamo la natura con il caos e la casualità, mentre i sistemi meccanici sono sinonimi di uniformità e prevedibilità. In realtà, dopo anni di ricerca e lavoro, mi convinco sempre più che la natura può essere abbastanza prevedibile e abbastanza uniforme. Le macchine invece possono comportarsi in modo imprevedibile o apparentemente casuale. Anche se questo potrebbe avere a che fare con la limitata – mia o in generale degli uomini – capacità di programmazione informatica. L’errore fa parte anche dello sviluppo tecnologico e trovo affascinante vedere quando una macchina va in tilt e crea il “caos”.

Cosa pensi della scienza: pericolo o opportunità?
Sono affascinato dalla tecnologia e dalle innovazioni tecnologiche. Penso che abbiano il potenziale per arricchire e migliorare la nostra vita. Allo stesso tempo, penso che dovrebbero essere attuate con saggezza e con un pensiero umanitario se non addirittura filantropico.

Big Bang, data Expo Kenchtel, Gunner Knechtel photography, cccb, Barcelona

Che ruolo gioca la tecnologia nella tua arte? Puoi spiegare il tuo processo creativo?
Vedo la tecnologia come uno degli strumenti che oggi ha un artista per “fare” arte: alcuni artisti usano pennelli o scalpelli, altri usano computer e robot nella creazione del loro lavoro. Nel mio lavoro senz’altro la tecnologia gioca un peso fondamentale, ma non è mai sola e fine a se stessa. Poi ovviamente il lavoro chiama lavoro e la mia ricerca si evolve quasi spontaneamente: così sono spesso ispirato da nuove forme di tecnologia. Quando mi approccio a nuove tecnologie, mi eccito come un bambino di fronte a un regalo prima che venga scartato. So che sto aprendo un mondo di nuove possibilità per la mia arte. Penso che l’intelligenza artificiale sia un buon esempio. È qualcosa che si può impostare e vederla correre fino a quando non sbaglia in un modo interessante.

I tuoi sistemi, nell’essere autonomi, quasi apprendono e crescono. Perciò l’intelligenza artificiale è già parte, almeno a livello concettuale, del tuo lavoro. Ma cosa ne pensi? Come sarà il nostro futuro plasmato dall’intelligenza artificiale?
L’uso dell’intelligenza artificiale non è il futuro, è il presente. Penso che sia facile supporre che perché è un computer che prende le decisioni, queste decisioni siano completamente obiettive e senza pregiudizi. Ma quello che dimentichiamo è che queste macchine sono state “addestrate” e progettate da esseri umani. E come sappiamo tutti gli esseri umani hanno pregiudizi intrinseci, che possono essere riflessi e persino amplificati, attraverso questo processo di formazione e apprendimento. Questa per me è la cosa più spaventosa dell’intelligenza artificiale: la presunzione della perfezione da basi imperfette, come le nostre. Credo quindi il vero problema sia la non consapevolezza dei limiti, oltre che delle possibilità.

copertina fly revolver Gunner Knechtel Photography, CCCB, Barcelona

Cosa vuoi raccontare con la tua arte?
Anche se questo non è sempre possibile, ripeto un mio schema gnoseologico. Mi sforzo di impostare un sistema perché sia autonomo. Il mio obiettivo è uscire da ciò che ho creato perché continui a vivere ad di fuori e al di là di me. Inoltre, considero i sistemi come tentativi di replicare fenomeni naturali, movimenti o situazioni. Ma credo che questi sistemi non riescano a replicare questi fenomeni, sono repliche umane… la perfezione della natura è l’obiettivo a cui tendere sempre e sempre lo rimarrà. E così facendo la mia arte si sviluppa creando sempre nuove forme ibride. Queste forme possono essere viste come collaborazioni tra me, il sistema, e la forma naturale, in un continuo divenire.

Ci racconti un’opera a cui sei molto legato?
Ogni opera, anche a livello di ricerca, nutre quella successiva. Una delle forme ibride più autonome a cui ho dato avvio con la mia arte è Cloud Piano. L’ho realizzata in occasione di una mostra collettiva a San Paolo nel 2019 e porta i suoni e la musica a essere protagonisti. Un pianoforte è suonato dalle nuvole: una telecamera puntata sul tetto dell’edificio misurava i movimenti e le forme delle nuvole: un software personalizzato utilizzava il video delle nuvole in tempo reale per articolare un dispositivo robotico che premeva i tasti corrispondenti sul pianoforte. Perciò è come se le nuvole stesse stessero suonando il piano.

Cloud piano, David Bowen

Sbaglio o nella tua arte c’è una forma di intrinseca difesa della natura e critica dell’incapacità umana?
Spero che il mio lavoro sensibilizzi sempre tutti nei confronti dell’importanza della natura e della sua superiorità rispetto all’essere umano. Mi importa molto del clima e tratto spesso nei miei lavori il tema di come gli esseri umani influenzano negativamente tutto ciò che gli sta attorno. Ad esempio, Play machete può essere visto come un’opera che descrive il modo in cui la natura si difende, utilizzando uno strumento che è spesso impiegato per distruggerla. C’è una rabbia, la mia, in quel pezzo, una frustrazione raccontata attraverso la tecnologia. Ma anche Tele-present wind rappresenta come tutto il nostro mondo sia interconnesso e come ciò che facciamo in una parte del mondo abbia conseguenze anche a migliaia di chilometri.

Il tuo lavoro è molto di impatto, ma mai esaustivo, nel senso che non è mai evidente il messaggio. Perché questa ambiguità?
Perché nessuno ha nelle mani la verità assoluta. Penso che lo spettatore debba portare le proprie interpretazioni nel lavoro che ha di fronte. Per questo motivo, mi piace lasciare una certa flessibilità all’interno dei pezzi, in modo che possano essere letti in vari modi in base all’esperienza dello spettatore. Quindi questa ambiguità è assolutamente sempre voluta.

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