Sono molti a pensare che la campagna per le elezioni europee si baserà sulla questione ambientale, Antonio Polito ad esempio ne ha scritto di recente sul Corriere della sera. Il tema dovrebbe quindi contrapporre gli scettici del cambiamento climatico agli ambientalisti pronti ad affrontare la transizione ad ogni costo. È vero che Giorgia Meloni si prepara alla campagna del 2024 dando battaglia alle politiche green e proponendo ai partner del Consiglio europeo un’agenda politica basata su quattro punti fondamentali: immigrazione, Ucraina, energia e contrasto alla Cina. Nei piani dell’Ecr questa agenda politica, ridotta ai minimi termini, dovrebbe essere comunemente accettata, tanto da far convergere i ventisette Stati membri sulla sua proposta. Semplice no? Mica tanto, viene da dire.
Prima di tutto dovremmo chiederci se abbia senso discutere di una legislazione molto ampia e già approvata, concepita dal Vice Presidente esecutivo della Commissione europea e Commissario per il Clima, Frans Timmermans, che proprio in queste ore annuncia di lasciare il suo posto per candidarsi a primo ministro in Olanda. Durante l’attuale mandato, il Green Deal e successivamente il FitFor55 hanno regolato tutto il possibile, dall’energia all’industria, dall’agricoltura ai trasporti, dall’edilizia ai beni di consumo, per arrivare all’obiettivo zero emissioni entro il 2050.
In molti dei negoziati che si sono succeduti, i conservatori di Giorgia Meloni, gli euroscettici della Lega e i popolari di Manfred Weber hanno condotto innumerevoli battaglie, perdendole tutte. Insistere sull’Europa cattiva che vuole tutto green significa inventare un nemico immaginario e vendere soluzioni fasulle. Significa eludere il vero problema da affrontare. Quello che una certa politica urlante sa fare meglio.
Sebbene vi siano dubbi rilevanti sulle scelte fatte in materia ambientale e alternative possibili agli indirizzi tracciati come quelli che, ad esempio, hanno concentrato la transizione sull’elettrico invece che su un approccio non discriminatorio alla regolazione dell’uso delle tecnologie, tuttavia è palese la necessità di attuare gli impegni assunti e non lasciare l’economia europea nel guado tra il passato e il presente.
Per quale ragione allora, si dovrebbe cadere nella trappola di questa destra recalcitrante che vorrebbe riportare tutte le altre forze politiche a rigiocare una partita ormai finita? Sarebbe sciocco raccogliere la provocazione. Abbiamo invece bisogno di una «pausa regolatoria», cosi come l’ha definita il presidente francese Emmanuel Macron durante un suo discorso all’Eliseo nel mese di maggio a proposito della necessità di reindustrializzare l’Europa. Una pausa che possa dare stabilità al quadro legislativo europeo e facilitare gli investimenti offrendo regole chiare, certe e stabili. Contrariamente, continuare a modificare la normativa genererebbe confusione, si perderebbero opportunità di investimento e si danneggerebbe lo sviluppo industriale.
La questione che si pone sulla politica ambientale è piuttosto come finanziarla. La Commissione europea ha da tempo stimato il costo della transizione ambientale fino al 2030 a circa seicento miliardi l’anno, di cui almeno un quarto da finanziare attraverso la spesa pubblica. Il NextGenerationEu non basta ovviamente e, a oggi, non c’è nessuna proposta sul tavolo per assicurare la continuità del finanziamento europeo.
Meloni a Bruxelles traccheggia, ha sperato di scambiare la ratifica del Mes con condizioni più favorevoli del nuovo Patto di Stabilità. Come era prevedibile, il negoziato non sta andando a buon fine perché l’Italia non ha saputo offrire nulla in cambio, se non ritardi e defezioni sulla tabella di marcia del Pnrr. Su altri dossier, invece, vota a favore del patto su migrazione e asilo e poi fa lo sponsor di capi di Stato che l’Europa vorrebbero distruggerla e prendersene i soldi. Invoca un cambiamento radicale dell’Europa a destra e fino a ora non c’è un’idea programmatica dell’Europa delle nazioni. Se si trattasse solo dell’agenda in quattro punti sarebbe una proposta irricevibile per la sua debolezza, inadeguata a garantire la nostra stabilità.
Vi è dunque l’esigenza di volgere lo sguardo altrove. Ecco perché il tema, su cui le forze politiche dovrebbero mobilitare il sostegno degli elettori non è il contrasto allo scettiscismo climatico, ma come far fronte alle conseguenze delle scelte di noi europei. Nel giugno del 2024 gli elettori dovranno scegliere se confermare la stasi attuale improvvisando di volta in volta reazioni alle crisi, o scegliere di rafforzare l’Unione europea per costruire le fondamenta solide di un riparo sicuro.
Credere in quest’ultima opzione significa impegnare i cittadini e le cittadine europee a dare mandato affinché l’Unione europea possa essere in grado di occuparsi delle principali preoccupazioni degli europei: aumento del costo della vita, cambiamento climatico, sicurezza, contrasto alla povertà, disoccupazione ed educazione. Perché ciò accada dovremo predisporre un bilancio corrispondente all’interesse pubblico europeo, dotarci di un’unione dei capitali, di un’unione bancaria e fiscale per assorbire le crisi e sostenere gli investimenti, riformare le regole sugli aiuti di stato affinché spingano l’industria e l’innovazione e non siano al contrario da freno o un elemento di frammentazione del mercato interno, realizzare il pilastro sociale attraverso l’educazione e la formazione professionale, riformare il processo decisionale dell’Unione per migliorarne il funzionamento anche in virtù di un futuro allargamento ad est e rafforzare la rappresentanza che deve essere posta al cuore dei cambiamenti che dobbiamo innescare.
Mario Draghi, nel suo recente discorso pubblico al National Bureau of Economic Research, ha indicato proprio questa strada, basata sull’integrazione europea per sfuggire alla paralisi. Rimanendo dell’idea che la svolta a destra dell’Europa non ci sarà, dovremmo adoperarci da subito per dare all’Unione del dopo 2024 il volto rassicurante che gli europei si aspettano.