L’altro giorno è tornata all’esercizio delle sue funzioni Eva Kaili, la ex vicepresidente del Parlamento europeo imprigionata per mesi senza imputazioni, infine rilasciata con l’ordine di non parlare alla stampa mentre emergevano indizi di pasticci nell’inchiesta sul cosiddetto Qatargate, un’azione giudiziaria condotta sulla scorta di attività spionistiche dei servizi segreti e gestita da un giudice allontanato per conflitto di interessi. Ma la notizia è che i voti espressi da Eva Kaili sulle questioni di cui ha ricominciato a occuparsi non saranno intestati al gruppo dei Socialisti cui apparteneva, e dal quale è stata esclusa dal giorno in cui è stata arrestata.
Si potrebbe dire che dopotutto sono faccende di quell’aggregazione parlamentare, la quale ha tutto il diritto di escludere dai propri ranghi quelli che ritiene indegni di militarvi. E si potrebbe aggiungere che si tratta infine di un caso singolo, immeritevole di troppa attenzione. Ma è sufficiente guardare tutta la faccenda dalla prospettiva opposta per capire che è possibile cavarne un significato ben diverso e di portata generale.
Quell’istituzione, il Parlamento europeo, e i sodali di coalizione di Eva Kaili, si compiacevano delle requisitorie che la presidente dell’assemblea rivolgeva ai «nemici della democrazia» e agli «attori malvagi», presi con le mani nel sacco da una magistratura davanti ai cui ordini batteva i tacchi la politica secondina, quella che annunciava di aver prestato la propria collaborazione ai magistrati e alle forze dell’ordine partecipando fisicamente alle perquisizioni domiciliari. Pensavamo fosse prerogativa di certi ministri leghisti o grillini di casa nostra, travestiti da poliziotti e carcerieri davanti alle telecamere chiamate all’evento dell’arresto in mondovisione: e invece no, hanno fatto i compiti giustizialisti anche lassù e siamo arrivati alle operazioni di polizia giudiziaria con embedded il presidente dell’Europarlamento.
La decisione di destituire la Kaili dalla sua funzione, come quella di escluderla dal suo gruppo, sarebbero state più rispettabili se fossero state accompagnate almeno da qualche gemito di dubbio sul trattamento riservato a una signora tenuta al freddo e senza accesso ai servizi igienici nel corso del suo ciclo mestruale, e poi privata per settimane della possibilità di vedere la figlia di ventidue mesi. Quel rigore disciplinare e istituzionale sarebbe stato rispettabile, per quanto discutibile, se non avesse mancato di denunciare lo schifo di una giustizia che costringe una bambina di meno di due anni a stare lontana dalla madre, e a vederla due volte in sei mesi: quell’immagine, con la bimba che attraversa il cortile del carcere accompagnata dal nonno, diffama l’Europa, la politica dell’Europa e la giustizia dell’Europa più di qualsiasi giro di supposte tangenti.
E così l’ordine alla Kaili di tenere la bocca chiusa, l’intimazione rivolta dal giudice abituato alle interviste televisive durante le quali illustra quanto è bravo a incastrare i corrotti: nessuno ci ha trovato qualcosa di storto, evidentemente. La giustizia che fa comizio mentre impone il bavaglio all’indagata. E ancora nulla abbiamo sentito venire da quegli ambienti istituzionali, pur nel persistere degli interdetti ai danni di Eva Kaili, quando dagli stessi lombi di quelle procedure inquisitorie e persecutorie emergeva il riconoscimento che qualcosa probabilmente non filava per il verso giusto, e cioè la presenza di elementi che «potrebbero sollevare alcune domande sul funzionamento oggettivo dell’indagine».
Comunicati a petto in fuori, allo scatto delle manette. Doveroso riserbo, all’emergere delle magagne. Si è detto che il Parlamento Europeo era «sotto attacco». Sarà interessante capire da dove venisse l’attacco al Parlamento: se solo da quella girandola di presunte tangenti, o anche da chi vi faceva irruzione mentre gli eletti dal popolo sovrano facevano da uscieri.