Campo di battagliaPerché sempre più autocrazie vogliono uscire dall’Internet globale

La Russia ha testato il sistema Sovereign Internet tentando di isolarsi dalla rete, portando all’oscuramento di vari siti web. Mentre molti Paesi autoritari stanno cercando di creare un “web sovrano”, aumentando i blocchi nel mondo e minacciando la libertà di informazione, gli esperti avvertono che questa tendenza potrebbe avere conseguenze preoccupanti sui diritti umani

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Un paio di settimane fa la Russia ha tentato di staccare la spina che la connette a Internet. Lo scorso 5 luglio, intorno alle due del mattino (ora di Mosca) le autorità hanno scollegato la propria infrastruttura dalla rete globale del web, testando il sistema Sovereign Internet, che ha portato all’oscuramento di vari siti web.  Gli esperti hanno segnalato diverse interruzioni dei servizi Internet occidentali come Google e Wikipedia, ma anche di alcuni domini governativi russi, come effetto collaterale dell’azione di blocco.

Doug Madory, direttore e analista dell’osservatorio di Internet Kentik, ha ipotizzato che i test russi di inizio luglio siano serviti a bloccare il traffico internazionale solo in una parte del Paese, in modo da identificarne la provenienza e avere maggiore controllo sui flussi di informazione estera. 

Qualunque sia la ragione, non è la prima volta che succede. In passato, la testata russa The Bell aveva riferito di alcuni provider di Internet che avevano subito interruzioni durante una sequenza di collaudi legati al progetto Sovereign Internet, il nome informale dato a una serie di emendamenti del 2019 che vorrebbero imporre la sorveglianza della rete e il distaccamento dell’infrastruttura russa dal resto del World Wide Web. Il Roskomnadzor, il servizio federale del Cremlino per la supervisione delle comunicazioni e dei mass media, aveva definito i test «un successo», spiegando come le interruzioni documentate avessero riguardato aree limitate e di poco conto.

In realtà, gli esperti parlano da mesi delle difficoltà che Vladimir Putin sta incontrando nel cercare di isolare il suo Paese dal resto di Internet. Se n’era parlato molto l’anno scorso, nei giorni immediatamente successivi all’invasione dell’Ucraina, quando l’Icann (Internet Corporation of Assigned Names and Numbers, l’ente che assegna gli indirizzi IP in tutto il mondo) aveva respinto la richiesta avanzata dall’Ucraina di tagliar fuori la Russia da Internet. Una scelta che Kyjiv considerava strategica per arginare la propaganda del Cremlino, ma che avrebbe probabilmente sortito gli effetti opposti e che avrebbe segregato ulteriormente una popolazione intera, dando una grossa mano al governo di Mosca che da tempo cerca di farlo autonomamente.

Tuttora, il blocco generale russo sembra un’impresa ardua, ma ciò non significa che Putin non continuerà comunque a provarci. Visti i timori di un possibile stop a YouTube, Telegram e altri canali di informazione libera in Russia (Facebook e Instagram sono state vietate già l’anno scorso dopo che Meta è stata bollata come «organizzazione estremista»), i recenti sviluppi destano ulteriore preoccupazione.

L’aumento dei blocchi nel mondo
Mosca non è la sola a volersi chiudere in una bolla. Oltre al Cremlino, molti governi di Paesi autoritari stanno cercando da tempo di creare un Internet sovrano: secondo un report dell’organizzazione per i diritti digitali Access Now e della coalizione #KeepItOn, nel 2022 un numero record di Stati ha imposto limitazioni alla rete, con la maggior parte dei blocchi innescati da proteste, conflitti o accuse di violazioni dei diritti umani. 

I blackout osservati hanno riguardato trentacinque Paesi, il numero più alto in un singolo anno da quando le due associazioni hanno iniziato a documentare questo genere di fenomeni nel 2016. L’India è stata indicata come il «più grande trasgressore», con almeno ottantaquattro blocchi di Internet solo l’anno scorso. La maggior parte di questi si è verificata nei territori contesi del Jammu e del Kashmir, da tempo attanagliati dall’instabilità politica, anche se diversi episodi hanno riguardato anche altre regioni del subcontinente. Gli altri grandi recidivi sono l’Iran, che ha spento Internet per diciotto volte mentre reprimeva le proteste innescate dall’uccisione della giovane Masha Amini, e il Myanmar (sette blackout).

L’oscuramento imposto dal governo etiope alla regione ribelle del Tigray, durato più di due anni in un contesto di guerra caratterizzato da uccisioni, stupri e pulizia etnica, è il più lungo tra quelli osservati nel report. Nonostante la rete fissa e quella mobile siano state formalmente ripristinate dopo la firma di un cessate il fuoco a novembre, diverse aree del Paese africano continuano a rimanere isolate anche telefonicamente.

In questo scenario, c’è una notizia positiva che riguarda il numero di Paesi che tagliano l’accesso a Internet durante i periodi di elezioni politiche: solo cinque lo hanno fatto nel 2022, rispetto ai dodici del 2021. Il trend generale resta comunque negativo, con il numero di interruzioni in forte aumento dopo il calo riscontrato nel 2020, durante il periodo pandemico.

«I governi usano le chiusure di Internet come armi di controllo e scudi di impunità», ha spiegato al Guardian Felicia Anthonio, che ha lavorato al report. «Nel 2022, sotto regimi autoritari e nelle democrazie, i potenti hanno accelerato l’uso di queste tattiche insensibili, alimentando i loro programmi di oppressione e manipolando le narrazioni, mettendo a tacere le voci e assicurando la copertura per i loro atti di violenza e abuso».

In un’intervista a Scientific American, Natalia Krapiva, consulente legale di Access Now, ha riferito che l’idea sta trovando alcuni simpatizzanti anche in America Latina: «La volontà di avere la propria versione di qualsiasi cosa, che si tratti di una piattaforma o di Internet, sta avendo una certa risonanza. Penso che ne vedremo sempre di più in futuro. Avrà ramificazioni in tutto il mondo e produrrà sicuramente un impatto e un indebolimento dell’infrastruttura di Internet».

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