Come prevedibile, le vicende di Daniela Santanchè e Andrea Delmastro hanno risvegliato gli animal spirits dei complotti giudiziari in un governo dalla modesta cultura giuridico-istituzionale. Assistiamo dunque a un festival di strampalate teorie giuridiche da parte di cronisti e politici accomunati dalla totale ignoranza dei fondamenti del diritto, senza la pena non di consultare un codice, ma almeno un figlio laureando, un parente o un amico avvocato.
Uno dei più autorevoli commentatori politici a piena pagina proclamava ieri addirittura la riapertura ufficiale della nuova stagione di caccia grossa delle toghe alla politica. Assunto che, allo stato degli atti, per usare un adeguato linguaggio giuridico non è sorretto da sufficienti elementi di prova.
Sul caso Santanchè questo giornale ha avuto modo di dire come sia difficilmente e tecnicamente poco credibile che il ministro non avesse avuto informazione della sua condizione giudiziaria perché, decorsi i primi sei mesi di indagini dopo l’iscrizione nel registro degli indagati – avvenuta a ottobre nel caso della parlamentare piemontese – va notificata a lei la richiesta di ulteriore proroga del termine per svolgere gli accertamenti che la procura ritenga necessari.
Al contrario delle molte castronerie sostenute sul punto, l’avviso in questione va recapitato all’indagato e non solo al suo difensore (ci è toccato sentire anche questo) nominato o meno.
Delle due l’una: o la procura ha gravemente trascurato un preciso adempimento – compromettendo irrimediabilmente la validità delle indagini in corso – o il ministro ha omesso al Parlamento una circostanza rilevante per accreditare senza fondamento la tesi di un possibile reato di violazione del segreto commesso dagli uffici giudiziari di Milano e subito rilanciato da interessati corifei.
La realtà è tutt’altra: mai, come nelle vicende in questione, la magistratura si è mostrata più prudente e quasi timorosa nei confronti del potere politico.
Personalmente, in mezzo secolo di professione, non ho mai visto “secretare” un’indagine per una banale bancarotta come è stato fatto per le società del ministro Santanchè. Il termine per il vincolo del segreto può essere apposto solo per tre mesi, prorogabile solo per reati assai più gravi, dopo di che l’esistenza dell’indagine è conoscibile dall’interessato e dai suoi difensori a loro richiesta e quindi nessuna violazione di segreto può essere invocata.
Il caso Delmastro presenta invece interessanti particolarità che lambiscono temi importanti quale quello (spiegato su questo giornale) del conflitto di interessi di un governo che vede uno dei suoi membri processato dall’amministrazione giudiziaria di cui lo stesso si occupa istituzionalmente nel suo dicastero.
Con la solita tempestività, invece di doverosamente tacere, è intervenuto il ministro Carlo Nordio, che ha criticato il provvedimento di rigetto dell’archiviazione del suo sottosegretario e minacciato (vista la qualità delle precedenti il termine è appropriato) ulteriori riforme. Paradossalmente l’ex procuratore veneziano lamenta ciò che molti garantisti come lui propugnano: il controllo del giudice sul doveroso esercizio dell’azione penale, obbligatoria nel nostro sistema, un principio appena appena costituzionale che, certo, ne converrà il ministro, non si può solo utilizzare quando tutela le ragioni dell’indagato, specie se della propria parrocchia politica.
Ma la vicenda del sottosegretario veneto, che Linkiesta ha potuto approfondire con la conoscenza dei particolari, presenta precise peculiarità che vanno approfondite ben oltre la gazzarra politica.
Il punto cruciale non è la natura (segreto o no) del rapporto che la polizia penitenziaria ha inoltrato al Dap (Direzione dell’amministrazione penitenziaria) alcuni mesi fa durante la protesta dell’anarchico Alfredo Cospito contro il 41 bis –nel quale si segnalava il contenuto di un colloquio intercorso tra lui e alcuni detenuti per mafia –, ma se la condotta di Delmastro rientrasse nelle sue facoltà istituzionali di parlamentare o abbia commesso reato trasmettendolo al suo collega, amico e coaffittuario Giovanni Donzelli nel corso di un colloquio privato che peraltro i due ammettono. Sul punto, Donzelli dichiara di aver inoltrato una formale richiesta di accesso, evidentemente “mirata”, ma la procura sottolinea che essa è impropria e irrituale in quanto andava indirizzata al ministro e non al sottosegretario.
Sulla natura dell’atto, la difesa di Delmastro ha sollecitato un parere del Dap, che ha qualificato l’atto come riservato e a “limitata divulgazione” entro l’ambito del ministero, ma non etichettabile come segreto, su questo ha poi richiesto l’archiviazione dell’indagine. In pratica, a dimostrare l’enormità del conflitto di interessi in atto, il sottosegretario ha certificato la propria innocenza tramite un attestato rilasciato dal “suo” ministero.
La vicenda ricorda da vicino un’altra – non meno clamorosa – svoltasi sempre all’ombra di un tinello, simbolo classico della medietà italiana: quella di Piercamillo Davigo, cui il collega Paolo Storari consegnò nel salotto di casa i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, e che l’ex pm poi diffuse presso alcuni colleghi del Csm e alte cariche istituzionali, ricavandone un’incriminazione e la condanna in primo grado per lo stesso reato contestato al parlamentare di Fratelli d’Italia.
Storari è stato assolto, mentre è stato condannato Davigo dal Tribunale di Brescia, che ha ritenuto la sua colpevolezza sulla base del potenziale pericolo che la divulgazione dei verbali della Loggia Ungheria poteva arrecare all’indagine in atto a Milano. In particolare si è censurata la gestione privatistica di atti coperti dal segreto nel soggiorno di casa Davigo e poi diffusi al di fuori dell’ordinario circuito istituzionale tramite colloqui privati.
Di tale precedente non ha tenuto conto la procura di Roma, che ha richiesto l’archiviazione per Delmastro, sostenendo – con una qualche contraddizione, ma con lodevole scrupolo garantista – che l’atto fosse sì riservato, e dunque non divulgabile, in quanto riportava colloqui di detenuti in regime di massima sicurezza ma che il sottosegretario, ancorché valente giurista e avvocato penalista, non lo avesse percepito come tale, pur contenendo la relazione di servizio notizie suscettibili di costituire uno spunto di indagine.
Il gip non ha condiviso l’afflato difensivo dei pm, ha ritenuto in astratto configurabile il reato e sostenibile l’accusa nel processo in quanto come sostenuto anche dalla procura i colloqui tra detenuti al 41 bis sono coperti da segreto salvo costituiscano prova in un processo penale pubblico. Ed esercitando il legittimo controllo sul corretto esercizio dell’azione penale ha ordinato al pm di avviarla, chiedendo il rinvio a giudizio dell’illustre imputato, con la conseguente apertura di un palese conflitto di interessi e a rischio di scontro istituzionale tra un membro dell’organo di governo titolare del potere disciplinare sulle toghe e la magistratura.
C’è una cosa che accomuna i due casi: la disinvolta utilizzazione di atti pubblici e di estrema delicatezza come se fossero gossip, non nell’ambito dei circuiti istituzionali ma nella penombra metaforica e reale di un qualche “tinello marron” come quelli cantati da Paolo Conte per i suoi malinconici amori clandestini, tra un letto sfatto, le briciole in cucina, la tv aperta su qualche reality, lo sfondo più adatto per ospitare e cogliere la mediocrità triste e piccina di una classe dirigente.