La ragazza bosniacaIl mio essere europea è costruito sull’amore

La scrittrice Lana Bastašić spiega il suo difficile rapporto con i segni di identità basati sulla geografia e di come abbia costruito il suo senso europeo molto tardi, criticando il cinismo e accettando radicalmente le differenze: «È un desiderio di comunicare, di connettersi, anche se non si ha il privilegio di comprare un biglietto Interrail a vent’anni»

Unsplash

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

Cinque scrittori di diversi Paesi hanno immaginato il futuro dell’Europa attraverso una catena di lettere iniziata da Arnon Grunberg e proseguita con Drago Jančar, Lana Bastašić, Oksana Zabužko e Kamel Daoud

Caro Arnon, stavo per scrivere una lettera completamente diversa, ma poi è successa la vita. O la morte. È la stessa cosa.

Ero in una libreria di Berlino e stavo mangiando un dolcetto alla cannella (perché ora nelle librerie puoi farlo) leggendo bell hooks quando ho saputo che Dubravka Ugrešić era morta. L’ho scoperto nel modo peggiore possibile, attraverso i social, anche se non sono sicura che esista un modo giusto per scoprire che un’amica è morta. Sono troppo spesso in giro perché possa accadere che qualcuno che mi sia vicino mi si presenti, mi guardi con aria grave, mi prenda la mano e mi dica: «Ho una brutta notizia». Non conosco nessuno in questa città da abbastanza tempo da permettergli di tenermi la mano. Così me ne sono stata lì seduta con il mio stupido dolcetto alla cannella, con in mano un libro sull’amore, con una rabbia incontenibile.

Mi sono ricordata che mia sorella, che è psicologa, mi ha fatto scaricare un’applicazione che ti aiuta a trovare l’espressione giusta per ogni emozione mentre la stai provando. Mi aveva detto che mi sarebbe stata utile per definire i miei sentimenti con parole precise. Così ho aperto l’applicazione e ho scrollato la categoria “sgradevole ad alta intensità”. Le parole fluttuavano sullo schermo in bolle rosse e arancioni. Scioccata. Terrorizzata. Sconvolta. Ansiosa. Spaventata. Furiosa. Nessuna funzionava. Avevo bisogno di una sola parola per “la mia autrice jugoslava preferita è morta e si dà il caso che sia anche una mia cara amica e l’unico modello di donna che abbia mai avuto in questo mestiere, e sono arrabbiata con lei perché avremmo dovuto incontrarci tra due mesi”. Ma la lingua mi ha deluso. Di nuovo.

Poi ho guardato il libro di bell hooks che tenevo ancora in mano. La parola “amore” in minuscolo. Dubravka scriveva di amore, di scrivere per essere amati. Quando avevo mal di pancia, mi preparava il tè alla menta. Quando l’Europa soffriva, lei scriveva. E poiché era così tante cose insieme e, allo stesso tempo, nessuna di esse (jugoslava, croata, olandese, post-questo e post-quello, strega, donna, scrittrice), ho pensato che fosse la persona che più si avvicinava a definire il vero significato di “europeo”.

Aria pura croata
Ho sempre avuto un rapporto difficile con i segni di identità basati sulla geografia. Il mio primo passaporto era jugoslavo, mia madre lo conserva ancora in una vecchia scatola di scarpe insieme a un elenco dattiloscritto di istruzioni post-Cernobyl per i genitori. In Croazia eravamo serbi e abbiamo dovuto andarcene a causa di quella che Dubravka stessa ha descritto nei suoi saggi come “aria pura croata”. Proprio nel periodo in cui lei veniva scomunicata dai suoi colleghi professori universitari e giornalisti per aver preso posizione contro il nazionalismo, noi ci stavamo stabilendo in Bosnia per le stesse ragioni. E a Banja Luka ero “la ragazza croata” a causa del mio accento di Zagabria.

Mio padre correggeva il mio vocabolario a tavola come se la nostra santa serbità dipendesse dal fatto che usassi la parola giusta per il cucchiaio. Anni dopo, quando mi trasferii a Belgrado, ero improvvisamente “la ragazza bosniaca”, il mio vecchio accento di Zagabria era sparito ed era stato sostituito da vocali chiuse della Krajina, che i miei professori e molti colleghi consideravano con disprezzo. Ovunque andassi ero un’altra persona e la lingua che parlavo tradiva la mia estraneità. Alla fine, quando mi sono trasferita a Barcellona a metà dei miei vent’anni, ho semplicemente scelto “jugoslava” quando qualcuno mi chiedeva da dove venissi. Non era per nostalgia, semplicemente non avevo voglia di fare una lezione di mezz’ora sulla storia dei Balcani. Ma non ho mai detto “europea”.

Mentre mi trovavo in Spagna ho capito di essere tutto fuorché europea. I miei amici erano pieni di storie affascinanti sull’Erasmus e cambiavano rapidamente argomento quando confessavo che il programma non era mai esistito per gli studenti bosniaci. Questa loro “europeità” era piena di parole cariche di significato con cui non potevo identificarmi, ma di cui trovavo delle mie personali definizioni mentre le spacchettavo. “Saccopelista” significava avere un passaporto serio. “Millennial” significava avere l’elettricità in casa. “Interrail” significava Hogwarts express. A un certo punto ho rifiutato un invito a una festa intitolata “Mi mancano gli anni Novanta!”, e decisi di dare la colpa a un mal di testa invece di fare una lezione a un gruppo di “saccopelisti milliennial” sul massacro avvenuto nel mio Paese in quell’epoca.

“La ragazza bosniaca” nella libreria spagnola
Alla fine dei miei vent’anni, l’Europa era solo una serie di “sarebbe potuto accadere” che mi lasciavano amara e cinica. Avrei potuto avere una laurea migliore. Avrei potuto vedere il mondo. Avrei potuto crescere e perdermi gli anni Novanta. E, anche se io ci tenevo, con una sorta di silenziosa acredine, mi sembrava che a questa Europa – bianca, cristiana, ricca – non importasse molto di me. Non sapeva nulla di mia nonna che era sopravvissuta a un fulmine a quattro anni, adorava Maria Callas e le telenovele messicane e doveva portare con sé un permesso scritto per andare al mercato perché aveva un cognome musulmano. Tra gli uomini che le chiedevano i documenti c’erano i suoi alunni della scuola elementare.

Questa Europa era quella che presto avrebbe cominciato a pagarmi per parlare della guerra. Sembrava che volesse sentire solo storie raccapriccianti. Ero “la ragazza bosniaca” in un teatro alla moda in Belgio, che parlava delle “conseguenze della guerra” alle persone che avevano avuto bisogno di centocinquant’anni per rimuovere la statua di Re Leopoldo II. Ero “la ragazza bosniaca” in una libreria spagnola, che parlava delle “conseguenze della guerra” alle persone il cui dittatore era morto tranquillamente nel suo letto dopo aver restaurato la monarchia e sulla tomba del quale c’erano ancora dei bellissimi fiori. Ero “la ragazza bosniaca” seduta nel salotto bohémien di una baronessa toscana, che parlava “delle conseguenze della guerra” alle persone che presto avrebbero lasciato che Giorgia Meloni prendesse il controllo del loro Paese. Non sono mai stata un’europea, perché non era l’Europa quello che volevano. Quello che volevano era “la ragazza bosniaca”.

Un’altra cosa che capii presto fu che le storie bosniache erano raccontate meglio in tedesco o in inglese. Gli autori bosniaci che scrivevano tristi racconti di guerra erano amati a patto che scrivessero in una “grande lingua”. Preferibilmente, erano cresciuti all’estero. Preferibilmente, non avevano accento. Ho visto questi autori vincere premi, ottenere borse di studio e viaggiare per il mondo. E, anche se alcuni di loro sono scrittori davvero eccezionali e, a mio parere, meritano tutta la loro fama e la loro gloria, i miei “sarebbe potuto accadere” europei sono tornati presto a tormentarmi. E se avessimo lasciato la Croazia per il Regno Unito? Per la Germania? Per la Francia? E se fossi stata una millennial con lo zaino in spalla che scriveva tristi racconti di guerra nell’Interrail tra Berlino e Praga? L’amarezza è un muro difficile da abbattere quando nasce da una mancanza di privilegi.

Eppure Dubravka mi ha insegnato che l’amarezza, anche se sarà sempre presente in qualche misura per noi post-jugoslavi in Europa, a volte può vincere la battaglia ma mai la guerra. Scrivere è comunicare. La comunicazione è amore, con la “A” maiuscola. Non c’è posto per l’amarezza. Non c’è posto per il cinismo. Dubravka mi ha insegnato che “Europa” può significare ciò che voglio che significhi e che, attraverso il mio personale processo per definirla, può forse crescere, estendersi per ricevere gli altri significati. Il linguaggio, in altre parole, può “scioglierti”. Ho costruito il mio senso di europeità molto tardi. L’ho costruito sulla base di un’idea europea dell’amore come arma definitiva contro il cinismo e di un’accettazione radicale della differenza, per dirla con Alain Badiou. È un desiderio di comunicare, di connettersi, anche se non si ha il privilegio di comprare un biglietto Interrail a vent’anni. «Scrivi», mi ha detto Dubravka. «Invece di lamentarti di quello che avresti potuto fare, siediti e scrivi».

Malgrado l’ossessione celebrativa del mercato per l’individuo sovrano, alimentata da potenti algoritmi che servono solo a portarci ad acquistare prodotti su misura, credo che in Europa ci sia ancora spazio per uscire dalla nostra bolla. C’è ancora spazio per sedersi su un marciapiede la sera presto e parlare in un pessimo tedesco con la donna turca che ha appena chiuso il negozio per la giornata e vuole tornare a casa per guardarsi un reality show. E penso che il suo nome somiglia a quello di mia nonna. E penso anche che a Dubravka piacerebbe molto.

Pubblicato in collaborazione con Voxeurop.eu.

Lana Bastašić è una poeta e traduttrice bosniaca e serba. Ha vinto il Premio europeo di letteratura per il suo primo romanzo Afferra il coniglio (pubblicato in italiano da Nutrimenti nel 2020), che esplora come affrontare la vita in un Paese dilaniato dalla guerra. Sempre Nutrimenti, nel 2022, ha pubblicato la sua raccolta di racconti Denti da latte, nella traduzione di Elisa Copetti.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.