Multilinguismo e traduzione hanno dalla loro una duratura relazione, di contrasto e attrazione a un tempo. Le opere letterarie che paiono sfidare l’uso, la centralità, di una sola lingua, promuovendo una «co-presence», come direbbe Grutman, piuttosto che una «substitution of one language for another»54 attraverso l’alternare due o più lingue nel testo narrativo, sono opere potenzialmente problematiche da tradurre, perché pongono in dubbio lo status di quello che potrebbe essere considerato il testo d’origine, compromesso ovvero non unitario linguisticamente. Cosa detta infatti la scelta di un traduttore che si trova a dover tradurre in italiano ad esempio un testo chiave della letteratura chicana quale Mango Street (1984) della messicano-americana Sandra Cisneros? Come cioè si decide tra lasciare lo spagnolo così come è e dare all’inglese lo status di lingua dominante, l’unica che verrà tradotta in italiano? Un libro multilingue, potenzialmente problematico da tradurre – pensiamo ancora una volta al dibattito sulla traducibilità di Joyce – può dare adito non solo a questi paradossi, ma presentare, di fronte alla traduzione stessa, la vulnerabilità in cui la varietà linguistica si trova «at considerable risk of disappearing or having its subversive potential downplayed», per effetto di una traduzione omogeneizzante.
In questa resistenza all’omogeneità traduttiva – che per alcuni è invece rappresentante del potere stesso universalizzante della traduzione e il suo uso sociale – la letteratura multilingue è per sua stessa costituzione scomoda rispetto al legame con una lingua nazionale, o meglio con quello che Weinreich definì come «language loyalty», l’assunzione (spesso nazionalistica) di un linguaggio considerato su «a high position in a scale of values», rispetto ad altri. Da un lato come abbiamo visto si respira nelle opere multilingui una sorta di principio di universalità, di quello che Glissant chiamava quello scrivere en présence de toutes les langues du monde, come possibile riconciliazione utopica – nella varietà e non nell’omogeneità – della condizione di condanna post-babelica, di frantumazione e caos linguistico, che può essere interpretata come vera indipendenza da ogni bandiera nazionale. Come sottolinea Glissant:
«Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire conoscere tutte le lingue del mondo. Vuol dire che […] non posso più scrivere in maniera monolingue. Vuol dire che dirigo e sovverto la mia lingua, non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche che mi permettono di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla Terra – rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’oppressione, d’erosione, di tangenza […] è questo ciò che io chiamo multilinguismo».
La dialettica interna nel multilinguismo letterario tra universalità ed esclusività, si direbbe, tra apertura strutturale e refrattarietà anche nella lettura (una dialettica che da un lato invoca e dall’altro provoca la traduzione, la mette in scacco) emergerà nelle analisi dei casi dei prossimi capitoli. Notare questa dialettica non è una novità: troviamo molte affinità con il dualismo descritto da Laura Lonsdale nel suo saggio sul multilinguismo, che ancora una volta vogliamo qui richiamare.
La studiosa nota nella letteratura multilingue una tendenza verso «the most barbarous elements of modernity (inarticulacy, incomprehension)», ma allo stesso tempo un’inclinazione verso «some of its most utopian possibilities (translation)». Se il romanzo multilingue rompe con il paradigma monolingue di origine romantico-herderiana che connette linguaggio, nazione e popolo – quella credenza che, come dice anche Steiner, «each language crystallizes the inner history, the specific world-view of the Volk or nation» rivelando un pregiudizio negative fortissimo per il «literary language mingling» –, la mescolanza linguistica letteraria mette anche in questione l’egemonia internazionale dell’inglese come lingua franca, il dominio cioè di quel cosiddetto «Anglo-Globalism» che veniva contestato alla teoria di Moretti.
A nostro avviso, il multilinguismo del romanzo ci presenta la necessità di definire così due polarità: da un lato è legato al tema già citato della untranslatability, che si connette alle esperienze di quelle «language diasporas that bolster transnational literary communities», come scrive Apter. Dall’altro lato, il multilinguismo del romanzo è legato al tema altrettanto dibattuto della auto-traduzione. Se l’auto-traduzione è stata spesso trattata come sinonimo di una riscrittura creativa di autori esiliati o dispatriati alla ricerca o nella scelta di una nuova inclusione, rivela anche quel fenomeno translingue universalizzante, quella tensione ad essere pandictic già notata quando abbiamo citato lo studio di Kellman.
Questi due fattori, il lato intraducibile e quello auto-traduttivo, possono essere utili per comprendere anche il legame tra multilinguismo e il concetto di World Literature. I romanzi multilingui sono World Literature in quanto «resist linguistic, national or communitarian boundaries and dramatize cultural movement and blending», mettendo però in questione i dualismi tra comunità linguistiche dominanti vs. dominate, linguaggi globali vs. locali, letterature centrali vs. Periferiche.
[…]
In sintesi, le forme multilingui del romanzo che proponiamo in questo saggio confermano quanto scritto da Derek Attridge, non solo mettendo in questione che la traduzione sia solo il passaggio da una lingua d’origine a una lingua d’arrivo, ma confermando che ogni testo letterario già per sua natura «challenges the constraints that aries from a conception of a language as an autonomous body». Proponendo un’evoluzione letteraria, in cui i confini tra le lingue e le comunità di parlanti sono labili, porosi, in conflitto, ma anche in comunicazione, scambio e prestito, costante idiolettizzazione tra lingue.