Show al solleoneLa discussione estiva sul salario minimo rischia di esaurirsi negli slogan senza risolvere nulla

Il problema dei salari è reale e urgente, ma l’unico modo per intervenire è un serio confronto tra parti sociali, entrando nel merito della questione. Quello andato in scena ieri invece era uno spettacolo utile soprattutto ai partiti

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Cosa rimane, di un inedito vertice di metà agosto fra maggioranza e (quasi) tutta l’opposizione?
Se proviamo a stare alla politica, ci rendiamo conto che la sfilata in sala verde di quasi tutti i leader politici italiani rispondeva a due esigenze precise.

La prima, quella della destra, era quella di sottrarsi dall’accusa di insensibilità sociale all’indomani della abrogazione del reddito di cittadinanza e del disastroso metodo comunicativo via sms col quale si è trasmessa una idea di abbandono delle classi meno abbienti da parte dello Stato.

La seconda, quella del vagheggiato campo largo, era quella di dimostrare l’esistenza di una unità di intenti, tentando di spingere fuori dal perimetro dell’opposizione i riformisti per affermare una egemonia culturale populista dell’ opposizione italiana.

Tutti gli attori del tavolo in sala verde, del resto, sono perfettamente consapevoli dei limiti strutturali che il disegno di legge Conte (e Maurizio Landini) porta con sé.

Irrealistico immaginare di trovare in legge di bilancio oltre una decina di miliardi (c’è chi parla addirittura di tredici o quattordici) per attuare il disegno dirigistico del campo largo, sostenendo con fondi pubblici l’introduzione cogente dei nove euro erga omnes.

Al contrario, come ha notato Federico Fubini sul Corriere della Sera, il piatto piange perché il fabbisogno dello Stato è cresciuto con il governo Meloni di oltre cinquantadue miliardi rispetto al governo Draghi, con un saldo di cassa in negativo per una ventina di miliardi. Tradotto: nella prossima legge di bilancio il problema sarà trovare le risorse per assicurare le attuali previsioni, a iniziare da una decina di miliardi per rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale realizzato in via provvisoria per decreto nei mesi scorsi.

Di conseguenza, a fronte della conclamata evidenza della inesistenza fattuale delle risorse , anziché fare come in un paese normale si dovrebbe fare – e cioè aprire una discussione di merito in sede parlamentare – per la doppia esigenza di propaganda estiva si è dato vita ad una inutile passerella a puri fini mediatici, utile tutt’al più per riempire il palinsesto di una sera dei telegiornali di metà agosto.

Resta il fatto vero: discutere di salario minimo è giusto, ma che lo strumento proposto dalla combinato disposto Cgil-Movimento 5 stelle a cui si sono aggiunti improvvidamente gli altri partner del cosiddetto campo largo rischia di sortire effetti opposti.

Questo perché è inevitabilmente costruito con il marchio di fabbrica del populismo massimalista, che pretende di risolvere ogni problema attraverso la leva della spesa pubblica (fatta a debito o o attraverso un aumento della pressione fiscale) e mediante una impostazione di natura dirigistica. E perché porterebbe con sé, se approvato in questi termini, il rischio dell’aumento del lavoro nero – soprattutto al Sud – e l’innesco di un benchmark al ribasso degli altri contratti, con l’ulteriore rischio sganciamento dalla contrattazione collettiva per le piccole aziende poco o nulla sindacalizzate, con relativo spostamento verso il basso delle retribuzioni. Il disegno di legge a prima firma Conte, insomma, porta con sé il classico meccanismo della eterogenesi dei fini.

In realtà il livello del salario minimo, per funzionare, dovrebbe essere determinato -in sede tecnica e negoziale- sulla base delle caratteristiche produttive italiane, della dinamica aziendale e di comparto, della riduzione del cuneo contributivo e sulla scorta di una contrattazione sindacale.

A questo si dovrebbero aggiungere altre ed integrate soluzioni nel quadro di una autentica politica dei redditi: una detassazione completa della contrattazione di secondo livello, una detassazione degli utili destinati ad agevolare la partecipazione ai medesimi dei lavoratori (come da proposta Cisl sostenuta in parlamento a prima firma Matteo Renzi), un meccanismo di incentivi per lo spostamento di capitale e lavoro da settori a basso valore aggiunto a quelli ad alto valore aggiunto, una stabilizzazione della riduzione del cuneo contributivo con rapida attuazione della riforma Irpef concentrando le riduzioni sul ceto medio che da solo sopporta la maggior parte del peso fiscale sul lavoro. Sono tutte proposte che Italia Viva ha già depositato in parlamento, e che siamo pronti a discutere entrando nel merito da subito, uscendo da questa sorta di Truman show mandato in onda Palazzo Chigi e portando la discussione nell’unico luogo che in una democrazia rappresentativa è preposto a questo: il Parlamento.

Il tema dei salari è indubbiamente reale, ma non si risolve con passerelle a favore di telecamera in un pomeriggio d’agosto: serve più politica, serve attenzione alla produttività, serve una strategia di crescita sostenibile del paese togliendo il Pnrr dal pantano di Raffaele Fitto e Giorgia Meloni e su queste basi si può arrivare – attraverso le modalità ricordate – ad affrontare il tema della redistribuzione a sostegno dei salari più bassi.

Senza dimenticare, fra l’altro, che l’ipotesi di nove euro è comprensivo di scatti, indennità e altre voci che portano ad un netto di circa cinque euro. Sappiamo bene che la retribuzione media italiana negli ultimi a trent’anni è calata del 2,9 per cento mentre in Francia in Germania è aumentata del trenta per cento. Questo perché c’è un nesso causale tra la mancata modernizzazione del paese (sia in termini istituzionali sia in termini economici) e la sperequazione dei redditi con il blocco dei salari.

In questi anni abbiamo assistito ad una azione di sistematica delegittimazione dei partiti e dei sindacati, da parte di chi oggi – come il Movimento 5 stelle – pretende di farci la morale sul salario minimo. La destrutturazione dei partiti, dei sindacati, della democrazia del paese si è trasformata in un consolidamento delle posizioni dominanti e in una perdita di capacità negoziale da parte dei ceti popolari: questa è l’eredità della destra berlusconiana e della delegittimazione della politica grillina.

Per cui Conte cominci a fare il suo mea culpa sul salario minimo, sia in termini politici che anche operativi, visto anche che è stato a Palazzo Chigi quasi tre anni su quattro nella scorsa legislatura e non ha fatto nulla al riguardo.

In conclusione: limitare la discussione su un tema come il salario minimo agli slogan estivi è un errore, che rischia di portarsi via il problema terminato lo show mediatico.

Serve, al contrario, una politica organica. Ora Giorgia Meloni – bontà sua! – annuncia il minimo sindacale, e cioè che aprirà una stagione di confronto (che sarà preceduta dal coinvolgimento del Cnel… sorvoliamo…). A questo confronto noi arriveremo preparati, sulla scorta delle proposte già depositate in Parlamento e di una strategia di lavoro articolata in cinque punti.

Primo: politica dei redditi e rilancio della concertazione tra le parti sociali.
Secondo: taglio delle tasse sul lavoro.
Terzo: incremento della produttività a vantaggio dei salari.
Quarto: partecipazione dei dipendenti agli utili aziendali.
Quinto: politiche di sviluppo per sostenere la crescita.

Non dimentichiamo la lezione di Tarantelli: i salari non si determinano inseguendo i prezzi al consumo, ma nel confronto tra le parti sociali su produttività, condizioni di mercato reali, e concertazione. Con la politica che crea le condizioni di contesto, ma si affida poi all’autonomia delle parti sociali.

Si chiama riformismo, ed è ancora la via maestra per togliere questo Paese dalle secche in cui la demagogia e il populismo l’hanno trascinato.

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