Devo scrivere tre articoli, uno più lungo, due più semplici e brevi, un po’ di scartoffie da archiviare, qualche email rimandata troppo a lungo. E ho sempre troppo poco tempo. Condizione standard del giornalista da quotidiano. Farò una visita di un paio di giorni sull’altra sponda dell’Atlantico e il fuso orario e il jet lag non mi aiuteranno a lavorare meglio né di più. Mi serve una poltrona comoda, un momento di relax e qualche ora di concentrazione per chiudere il grosso del lavoro: certo non pensavo di trovare le condizioni giuste a undicimila metri d’altezza, viaggiando a ottocento chilometri orari, in un viaggio di oltre seimila chilometri.
E invece, quando il comandante dell’aereo fa sapere ai passeggeri che manca mezz’ora scarsa all’arrivo, mi prende un colpo! Perché, anche se sono in volo da diverse ore a bordo dell’Airbus A321 de La Compagnie, rilassato sul sedile Rockwell Collins reclinabile in comodo letto orizzontale, con cinquanta centimetri di larghezza e centonovantadue centimetri di lunghezza, con le cuffie insonorizzate a cui ogni tanto chiedo di mandare un po’ di smooth jazz, ho lavorato così bene che non sono pronto a mollare la mia poltrona – e non è la paura dell’atterraggio, figuriamoci, non è roba da millennial.
Vorrei chiedere al pilota se può rallentare un pochino, quanto basta per darmi il tempo di rileggere quello che ho scritto, ma sarebbe una follia contravvenire alla logica del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie – «presto che è tardi!» – gli aerei hanno tempi e coincidenze da rispettare. Mi accontento di quello che ho scritto e chiudo il pc.
Il volo de La Compagnie, che in primavera ha festeggiato il primo compleanno della tratta Milano-New York, viaggia su orari piuttosto comodi, si parte alle 14 circa da Malpensa e l’arrivo è nel tardo pomeriggio del giorno stesso grazie al fuso orario. È la più classica delle rotte transatlantiche, ma aggiornata per seguire una delle nuove direttrici del marketing: rendere il lusso un servizio accessibile. La Compagnie, infatti, vorrebbe rivoluzionare la business class rendendola più smart. Come? Rispetto alle compagnie aeree più prestigiose si possono risparmiare anche trecento euro sui biglietti, e nel prezzo sono inclusi la scelta del posto, due bagagli da stiva da 32 chili e il bagaglio a mano.
L’azienda francese ha messo su una piccola flotta di A321 destinati solo a voli business, il cui ospite-tipo appartiene al mondo della creative class, come la chiamano loro, che poi è l’evoluzione moderna dei Bobos descritti da David Brooks all’inizio di questo secolo. A bordo c’è un regalo di benvenuto per tutti i passeggeri.
Per festeggiare l’anno di operatività della tratta, sul mio volo c’è un ospite d’eccezione: l’illustratore Alessandro Giorgini che ha condensato in un disegno lo spirito del viaggio: sulla sua tavola ci sono i toni dell’azzurro e del celeste come i colori della compagnia francese, le linee dritte spezzate in spigoli vivi riproducono sullo sfondo i simboli di Milano e New York, il Duomo e il Bosco Verticale, il Flatiron Building e il One World Trade Center; in primo piano i finestrini dell’aereo, i passeggeri al lavoro e i turisti nelle due città.
«Una vista paesaggistica senza interruzioni, una sorta di eco visiva che mette in relazione le due città: New York come Milano e viceversa. Due luoghi con similitudini e rimandi visivi, ma con caratteristiche profondamente uniche sia negli spazi sia nelle persone che li abitano. Al centro dell’illustrazione, una viaggiatrice che osserva le nuvole danzare e dar vita ai panorami cittadini, alle persone e ai ricordi di viaggio», spiega Ale Giorgini.
Questa smart business class per settantasei passeggeri è pensata per permettere a chi sceglie il servizio per viaggi d’affari di lavorare in tutta comodità, e per realizzare quest’obiettivo ci sono delle condizioni da rispettare. Ho detto della poltrona, le cuffie insonorizzate fanno certamente comodo, e anche le playlist musicali. Ma l’unica vera conditio sine qua non è la connessione a internet, e questa è la vera chicca: anche nel pieno dell’Oceano Atlantico, con i motori che spingono a pieno regime, la connessione wi-fi funziona alla perfezione, si possono fare ricerche online, guardare video in streaming, scambiare messaggi ed email. Azzardo una videochiamata, decido di sentire qualcuno della mia famiglia durante il viaggio. La mia connessione regge meglio di quella di casa, in più è gratis e illimitata.
A bordo siamo pochi, rispetto ai voli standard da 300 posti, e i passeggeri han – no uno spazio pro capite di circa tre volte superiore a una classica economy. Pochi minuti dopo il decollo gli assistenti di volo distribuiscono salviettine e un piccolo ape – ritivo con bollicine e frutta secca. Poi arriva il momento del pranzo: il menu, di buon livello, nell’ultimo anno è stato arricchito da collaborazioni con chef stellati – prima Lorenzo Cogo, poi Floriano Pellegrino e Isabella Poti – che hanno creato ricette speciali.
Mi rimetto al lavoro e il tempo scorre veloce. L’annuncio del comandante arriva troppo presto. Atterriamo a Newark, nel New Jersey, in un aeroporto che tutti ve – dono come il cugino scemo di JFK e La – Guardia. Ma, ehi, la distanza da Manhat – tan è praticamente la stessa, e al controllo passaporti non c’è nessuno – rispetto alle file interminabili che toccano a chi arriva dall’Europa a New York è un risparmio di tempo notevole, sia per i turisti in vacanza, sia per chi, come me, ha impegni e scadenze da rispettare, per riprendere il discorso della produttività.
L’unica delusione è atterrare nel Terminal B, quello vecchio con la moquette anonima e le finestre ormai opache. Avrei voluto dare uno sguardo al nuovo Terminal A inaugurato a gennaio 2023 e costato quasi tre miliardi di dollari, con trentatré gate tutti nuovi, le sale lounge digitalizzate, le opere d’arte moderna, i vetri alti e limpidi. Mi piace pensare che al Terminal A mandino in sottofondo le canzoni di Paul Simon, Whitney Houston, Frank Sinatra e degli altri grandi della musica nati da queste parti. Ma è una speculazione mia, indagherò meglio la prossima volta.
Il soggiorno a New York è sempre troppo breve in una città che non si conosce mai abbastanza. Ma anche il viaggio di ritorno ha un orario comodo, decolla da Newark il sabato alle 21.50 e arriva in Italia la domenica alle 13 circa ora locale. È sera, è già weekend, non ho la lucidità né la necessità di lavorare: la tratta di ritorno non la vivo da business traveller, somiglio più a un turista con un pc pieno di file Word. Decido di guardare un film mentre mi gusto la cena – una cosa che a Milano non faccio mai. Il display da 15,6 pollici è montato sul sedile e sembra piuttosto nitido, almeno nel volo serale, quando la cabina è meno illuminata.
La selezione di film a bordo non è delle più fornite e manca l’opzione per l’audio in italiano, che su un volo in partenza da Milano poteva essere una buona idea. In compenso, in fondo al catalogo trovo The Whale, che forse non è il gran capolavoro annunciato da alcuni critici in Italia e in America, però l’interpretazione di Brendan Fraser gli è valsa l’Oscar come miglior attore protagonista, Hong Chau è stata candidata a miglior attrice non protagonista e voglio fidarmi delle valutazioni dell’Academy anche in questa sua nuova versione edulcorata e un po’ woke degli anni Venti di questo secolo.
Alla fine del film mi stendo del tutto, la poltrona si inclina totalmente e diventa come un letto, in dotazione ci sono anche un cuscino e una coperta morbida confezionati in busta singola per motivi d’igiene. Non mi addormento subito perché le turbolenze non cullano l’aereo come vorrei, ma si dorme bene e al mattino mi risveglio a poco più di un’ora dall’atterraggio, solo per i rumori che fa il carrello delle vivande: potrei dormire ancora, ma sono tra quel – li che crede davvero alla frase sulla prima colazione come pasto più importante della giornata, quindi rimetto il sedile in posizione eretta, pronto per un waffle con la marmellata.