C’è stato un momento, venerdì sera, mentre guardavo “Coup de chance” in un cinema che come taluni cinema in Italia era collegato col cinema di Roma in cui Woody Allen presentava il suo ultimo film, c’è stato un momento in cui ho avuto la netta percezione della curva di crescita avvenuta da quando ho visto il mio primo Woody Allen – “Manhattan”, nel televisore della cucina, una quarantina d’anni fa – a oggi.
C’è stato un momento in cui ho guardato la scena della tensione sessuale, quella scena ovvia che arriva quando due personaggi che sai da interi quarti d’ora diverranno amanti stanno in effetti per diventarlo, e sono due personaggi francesi scritti da un americano, e quindi hanno cucinato spaghetti alla bolognese (qualunque cosa significhi), e gli spaghetti sono in una ciotola e la salsa in un’altra, e invece di mescolarli stanno per baciarsi, e la vegliarda me ha pensato solo: mannò, per quando finite gli spaghetti son diventati colla.
C’è stato un momento prima del film, guardando Gianluca Farinelli smanioso di sembrare brillante persino più di quanto lo fosse presentando Martin Scorsese, in cui mi sono interrogata sulle crisi di mezz’età come non mi accadeva dall’ultima (e da tutte le precedenti) volte in cui ho visto “Manhattan”, giacché solo la crisi di mezz’età poteva far pensare all’io narrante di Woody Allen che Tracy fosse meglio di Mary.
C’è stato un momento in cui Farinelli, prima di far entrare Allen, con lo zelo dei bambini che dicono la poesia di Natale e altrettanta mancanza di autoironia, ha annunciato che avrebbe letto le «tredici ragioni per cui è necessario amare Woody Allen», e io ho pensato mannò, ma perché, ma possibile che a casa nessuno ti abbia detto «ma sei proprio sicuro di voler fare questa paginetta di Buzzfeed alla bolognese?».
C’è stato un momento, a film cominciato, in cui ho pensato che nessuno sa scrivere i mariti borghesi insopportabili come Woody Allen: il Sidney Pollack di “Mariti e mogli”, il William Hurt di “Alice”, il Michael Caine di “Hannah e le sue sorelle”, e questo mangiarane qui. Questo arnese con la stanza per la pista del trenino che rimira gongolante e mostra agli ospiti: il modo in cui rendi l’infantilismo degli adulti di questo secolo quand’essi hanno lavori per cui non puoi vestirli con le felpe col cappuccio. Questo mangiarane cornuto che dice alla trentenne con cui è sposato, in tono allegramente intenerito, «hai paura che ti consideri stupida», una frase da testate sul naso, non fosse che lei è in effetti troppo stupida per dargliene una.
C’è stato un momento, davanti a una scena di festa privata sui cui tavoli c’erano quei secchi in cui nei bar tengono lo champagne, quelli con la marca ben visibile che si vedono nei film di Verdone (dove però è prosecco, ambientando lui il product placement a Roma e non a Parigi), in cui mi sono chiesta chi fosse l’Aurelio De Laurentiis di Woody, quello che gli dice ahò, guarda che dobbiamo metterci le bottiglie di Deutz, e si deve vedere bene che è Deutz.
C’è stato un momento, anzi due, in cui ho pensato che nessuno sa ridurre gli esseri umani a cliché culturali come Woody Allen. Uno è stato quello in cui il francesino regala alla francesina le poesie di Mallarmé, come le potessero fare l’effetto che fanno a un’americana, e non a una che Mallarmé l’ha mandato a memoria alle medie. Un altro è stato quello in cui lo scrittorino scrive a mano, come a Parigi raccontava di fare James Baldwin, ma forse questo stereotipo da americano a Parigi ha vieppiù senso oggi: Baldwin diceva di farlo perché la fatica dei tendini lo obbligava a frasi brevi, che sono le uniche che in questo secolo sia in grado di seguire un pubblico che si perde al primo inciso, ha un attacco di panico alla prima subordinata, gli serve un cardiotonico alla prima parentetica.
C’è stato un momento, proprio un attimo fa mentre scrivevo le righe quissù, in cui mi sono detta che «ridurre a cliché culturale» nessuno ma proprio nessuno capirà essere una citazione di Woody, giacché nessuno ormai riconosce una citazione più vecchia di tre quarti d’ora, che è la ragione per cui Woody ha fatto benissimo a girare questo terzo o quarto (ho perso il conto) rifacimento non dichiarato di “Crimini e misfatti”, giacché un pubblico senza riferimenti culturali è un pubblico al quale è giusto proporre repliche con nomi nuovi.
C’è stato un momento, venerdì sera, in cui ho pensato la stessa cosa durante la conversazione tra Farinelli e Allen, quando quello gli ha chiesto dei film francesi che l’avevano ispirato, e Woody ha risposto che mica solo i francesi: gli europei, gli italiani, gli svedesi, e Kurosawa; ed era un’evidente citazione da “Un giorno di pioggia a New York”, la ragazzina ignorante con velleità cinefile che diceva di amare il cinema europeo, per esempio Kurosawa, e chissà tra tutti i cinema collegati in Italia in quanti l’abbiamo colta, secondo me non più di tre.
C’è stato un momento in cui Farinelli ha avuto un lapsus, e il film che s’intitola “Coup de chance”, colpo di fortuna, l’ha chiamato “Coup de grace”, colpo di grazia, e io ho pensato alla battuta alla quale penso in tutti i casi da psicanalisi da ventotto anni, dal festival di Venezia del 1995, quando per la prima volta sentii il coro greco di “La dea dell’amore” dire che Edipo giacque con sua madre, e una nuova professione era nata, una professione da duecento dollari l’ora, ore da cinquanta minuti perdipiù. Ho pensato che tutto il lessico che ho per capire il mondo me l’ha dato Woody Allen tra i miei dieci e i miei venticinque anni, e chissà chi insegna a leggere il mondo a quelli che si formano oggi: Sally Rooney? Zerocalcare? Erin Doom?
C’è stato un momento in cui ho pensato che Woody stesse parlando a me, solo a me, proprio a me, non poteva che essere per questo che mi faceva specchiare nella sua protagonista facendole dire «Avrei dovuto interessarmi più alle lezioni e meno ai ragazzi»; non poteva che essere per questo che l’aveva chiamata Fanny Moreau, cioè col nome della protagonista d’un romanzo che scrissi a quarant’anni e il cognome dell’insegnante di francese che avevo a diciotto, e nessuno mi convincerà che il riferimento fosse Jeanne Moreau nella Parigi di Truffaut e non la mia prof in un liceo di Bologna.
C’è stato un momento in cui Farinelli ha chiesto ad Allen dei suoi colpi di fortuna, e quello – con la generosità dei talentuosi che non vogliono infierire sui meno talentuosi – ha detto che la fortuna è importantissima, molto più importante che essere bravi, e che lui è stato fortunatissimo sempre, gli è andato tutto benissimo, la vita, la carriera, la famiglia, e forse era un modo d’anticipare un passaggio in cui un personaggio di “Coup de chance” dice che è meglio non soffermarsi troppo sul terrificante ruolo del caso nelle nostre vite, ma forse non solo. Forse era un modo di dirci: smettetela di pensare che la mia ex pazza mi abbia rovinato la vita, la mia vita è molto meglio della vostra. Forse era il modo in cui, a cinquanta vegliardi anni miei e ottantasette suoi, Woody Allen continuava a insegnarmi a vivere.