Uno su mille nasce per correreLa strepitosa carriera di Morandi, la lezione di Techetechetè e il peso della musica leggera

Gianni è il Novecento italiano, un personaggio che non ha niente d’immedesimabile ma che per magia diventa tutti noi

Lapresse

Quelli che non sanno la tv pensano che fare “Techetechetè” sia facilissimo. È gente che, beata lei, non s’è mai accorta che la mitologia della tv in bianco e nero è costruita su dieci pezzettini, sempre gli stessi, e trovare qualcosa che valga la pena vedere e che non abbiamo tutti già visto mille volte è quasi più difficile che farsi venire un’idea nuova.

Venerdì sera è andata in onda una variazione sul secondo programma estivo più amato dagli italiani (essendo il primo “Temptation Island”). La variazione si chiama “Techetecheshow”, una prima serata costruita con le immagini d’archivio raccordate da Flavio Insinna.

Ora, il protagonista della puntata era Gianni Morandi, e io a questo punto potrei ricopiare un qualunque articolo ch’io abbia scritto su Morandi negli ultimi anni. Oppure ripetervi che “Uno su mille” è la “Born to run” d’un paese di mitomani, che Morandi è il Novecento italiano, che – sapete già tutto a memoria.

Il fatto è che quelle tre ore di tv l’hanno spiegato benissimo, come Morandi sia l’istruttiva storia del Novecento italiano; e spererei le avessero guardate (forse, addirittura: capite) le generazioni convinte che nessuno abbia mai faticato quanto loro.

Magari vedere la carriera di Morandi agli inizi, in mezzo ai montaggi d’epoca, l’inaugurazione dell’autostrada del sole, la vecchia che impara a leggere grazie alla tv pubblica, le donne che guardano con sospetto le prime lavatrici (chissà se le generazioni di oggi si sono mai chieste come le loro nonne lavassero le lenzuola, e senza neanche aver inventato l’espressione “lavoro di cura”), magari è servito a far capire qualcosina del passato a chi è così restio a studiare.

“Techetecheshow” l’altra sera ha fatto quel che non sarebbe male facesse spesso la tv (quel che dovrebbe fare sempre la divulgazione culturale): intrattenerti così tanto da non farti notare che ti sta insegnando a unire i puntini.

Farti vedere Morandi neanche quarantenne che dice a un’intervistatrice «prima ho detto che canterò fino ai cinquanta, sessant’anni: forse è troppo». Farti vedere com’erano gli esordi quando Gianni Morandi nel 1979 presenta Vasco Rossi senza sapere bene se abbia già fatto dei dischi. Farti vedere com’era il rapporto degli artisti coi mezzi di comunicazione quando, a “Speciale per voi”, un ragazzo fa a Morandi una domanda da assemblea d’istituto sul suo cantare di Belinda innamorata invece che del ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones.

Non importa che fosse una polemica fessa (Belinda che parla d’amore con l’insalata è molto meglio di quello che adesso sta nel Vietnam). Importa solo che oggi non succederebbe. Perché nessun addetto stampa manderebbe un artista in un contesto in cui gli fanno una domanda ostile. Perché esistono solo le modalità «genio!» o «devi morire»: non esiste la critica culturale o anche solo il dissenso argomentato, esistono gli hater, qualunque cosa s’intenda con questo automatismo lessicale ridicolo.

Come sempre, sono eloquenti le omissioni. In questo caso, in una storia televisiva di Morandi dalla quale apparentemente non manca niente – Morandi e Mina, Morandi e la Vitti, Morandi e Ranieri, Morandi e Laura Efrikian, Morandi e Baudo, Morandi e Minà, Morandi e i figli, perfino Morandi e Ted Kennedy – quella che si nota è la clamorosa mancanza di Morandi e Woody Allen. Woody Allen che era in studio al Tg1 quella sera di ventun anni fa in cui Morandi si collegò in mutande (in polemica coi metodi per racimolare punti Auditel: Morandi in quel momento conduceva un varietà su Rai 1).

Divagazione apparente. Qualche mese fa, ci sono stati un po’ di giorni di quelle telefonate concitate che avvengono quando un personaggio noto è anziano e si sussurra che stia male. Adesso si possono raccontare perché una settimana fa l’oggetto di queste telefonate era collegato con un tg a parlare di Toto Cutugno, e insomma sta bene e serva questa storiella da esorcismo.

Squilla il telefono una volta, due, tre. Guarda che Baudo sta morendo. Mi hanno chiesto un coccodrillo. Questione di giorni. Sono quelle telefonate che, se vengono da gente affidabile, in genere t’inducono a scrivere anche tu un articolo sul morto mentre è ancora vivo, almeno poi non devi precipitarti a scrivere al bancone del bar d’un albergo mentre sei già in ritardo per andare da qualche parte.

Quella settimana io il coccodrillo di Pippo Baudo non l’ho scritto per una ragione solo apparentemente irrazionale. Mancavano pochissimi giorni a Sanremo. L’unico uomo che sa la tv ch’io conosca mi disse: figurati se Pippo non tiene duro, per morire in pieno Festival, figurati se Pippo perde l’occasione di fare come Claudio Villa.

Me ne sono ricordata vedendo quella scena dimenticata: quando Gianni Morandi vince Sanremo – un Sanremo presentato da Baudo, ovviamente – assieme a Tozzi e Ruggeri, la sera in cui muore Claudio Villa. Claudio Villa che già sapevo – Gianni lo raccontava a teatro – essere il preferito di mamma Morandi, ma la cui madre non avevo mai visto assieme alla madre di Gianni.

Le ho viste venerdì: a questo servono gli autori bravi, a farmi scoprire che c’è un pezzettino della Canzonissima del 1968 che non avevo ancora mai visto, ed è un pezzettino che i puntini li unisce tantissimo.

C’erano le mamme in prima fila, e Mike Bongiorno chiedeva cos’avessero dato da mangiare ai figli, rivali nella gara canora. Ho pensato al tema su cui più spesso m’interrogo in questo periodo: quand’è che l’epoca che si nutriva di talento si è trasformata nell’epoca che si nutre di consenso?

Forse quella è una buona istantanea della transizione: due che diventano famosi per la voce epperò non basta, occorre che il pubblico li senta vicini, caldi, familiari, occorre dire alla mamma suo figlio è emiliano, mangerà i tortellini, e quella risponderà gli piacciono molto le tagliatelle, ecco, evviva, uno di noi, applausi, finalmente uno specchio che ci restituisca la nostra medietà e non un talento inarrivabile che ci inibisca e ci complessi.

Poi certo, quella di Morandi resta comunque una storia legata a prima della transizione, legata a quando serviva quasi solo il talento. Lo si capisce quando, è l’87, Gianni canta in tv la “Born to run” del paese di mitomani, l’inno di quelli che se gli dicono «sei finito» figuriamoci se ci credono.

Morandi non scrive le sue canzoni, ma “Uno su mille” Migliacci gliel’ha proprio cucita addosso, azzarderei con molti anni di gestazione. Lo azzardo ancora una volta per merito dei puntini che mi ha unito la tv, facendomi vedere un’intervista del 1970 in cui Morandi già diceva a Minà «ormai sono legato a questo personaggio che deve sempre essere ai primissimi posti sennò è finito».

“Uno su mille” è una canzone d’una bellezza commovente, è il manifesto del particolare della vita di uno che non ha niente d’immedesimabile, una popstar forse finita, che diventa universale di tutti noi: «Tu non sai che peso ha questa musica leggera: ti c’innamori e vivi, ma ci puoi morire quando è sera».

Ma quello che si nota vedendogliela cantare nello studio di “Fantastico”, in quello studio orrendo con luci orrende e inquadrature orrende che guardavamo a decine di milioni il sabato sera, è che, per sopravvivere a una confezione così sciatta, ci voleva una canzone della madonna. È anche per quello, che Morandi è la storia del Novecento: perché lo sappiamo benissimo, che peso ha, questa musica leggera.

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