Sconfinamento. Lo definisce così Maria Vittoria Baravelli, la curatrice della mostra In principio era la fine, disponibile da oggi a Torino, dal 21 settembre a Milano e poi a Verona fino al 28 ottobre 2023. Si tratta, infatti, della prima esposizione pittorica di Emiliano Ponzi, che ha sempre fatto l’illustratore, in forma peraltro digitale. Uno “sconfinamento” da un’arte a un’altra, da un genere a un altro, da una tecnica espressiva a un’altra. È un procedimento che seguono in molti, sconfinando non solo all’interno del settore figurativo in genere, ma addirittura entro i mezzi con i quali questo avviene: dal cinema alla letteratura, dalla letteratura al giornalismo, dal giornalismo alla critica, passando addirittura dalla recitazione, dalla “scena”.
In Italia, l’esempio più lampante di questa poliedricità è stato senza dubbio Pierpaolo Pasolini, ma non dobbiamo dimenticare che vi sono Paesi, tra cui svettano gli Stati Uniti, nei quali la predisposizione artistica è per sua natura labile, elastica, dunque onnicomprensiva: non si può comprendere la scrittura di un testo teatrale, ad esempio, se non si impara a stare sul palco. Non si può concepire un romanzo se prima non si impara a ipnotizzare una platea attraverso l’uso singolare della propria voce. Il canto, il ballo, il movimento seguono, accompagnano la riflessione, lo sforzo intellettuale. La allenano, anzi. Il corpo è un tutt’uno con la mente.
Potrebbe sembrare una teoria new age dalle premesse farsesche, dato che non vi sono prove che Flaubert o Proust o Kafka avessero bisogno di allenare i muscoli, la potenza vocale, il modo di riempire uno spazio per la resa sulla pagina. Eppure, anche nel loro caso, vi era una poliedricità, uno sconfinamento, sebbene diverso: dedicarsi alle passioni, alle gioie della carne, alla mondanità, alle feste o alla politica potrebbe da noi essere intesa come una deviazione dalle loro professioni, una forma di divertissement dal tedio dello scrivere, o tutt’al più una sublimazione. E se invece aiutassero, in qualche modo, a comporre? E se invece fossero stati un apprendistato, un metodo di raffinamento delle loro doti percettive e d’osservazione? Del resto, non dimentichiamoci che Kafka era il primo a disegnare, a riempire di schizzi e figure abbozzate i propri quaderni. Sono stati raccolti e pubblicati da Adelphi solo lo scorso anno. E il suo stesso mestiere in una compagnia di assicurazioni, che i posteri hanno sempre interpretato alla stregua di un’alienazione, che lo separava dolorosamente dall’ambizione letteraria, potrebbe essere invece studiato alla luce di uno sconfinamento involontario, eppure necessario, decisivo, imprescindibile, senza il quale non avrebbe mai potuto scrivere ciò che ha scritto? Chissà.
In questo caso, Emiliano Ponzi ha scelto di cambiare, di sostituire il suo sguardo, passando dal disegno al quadro, dallo schermo alla tela. Ha sconfinato, ha sforato così. Le motivazioni sono esplicitate all’interno del documentario preparato insieme a Marco Rosella: «Nel corso degli anni, ho sentito con insistenza una mancata completezza». Il documentario lo segue durante le giornate in studio, a Manhattan, indugia sull’improvvisa presenza delle vernici, dei pennelli, della mescolanza di tubetti di colori in una giornata altrimenti asettica, caratterizzata dalla sola presenza del monitor.
Asettica per modo di dire, dato che Ponzi è stato ed è tutt’ora autore del New York Times, di Le Monde, Esquire, The New Yorker. Si è occupato di moda, ha lavorato per Gucci, Louis Vuitton, Cartier, Armani, Bulgari. Ha collaborato con la casa editrice Penguin Books, illustrando il loro volume del 2015 The Journey of the Penguin. Ha prestato servizi a realtà aziendali, ibride, più o meno creative, come Airbnb, Lavazza, Moleskine, Pirelli, Ferrari. A gallerie e musei del calibro del MoMa di New York, per il quale ha realizzato The Great New York Subway Map nel 2017; nel 2018 ha creato una cronaca del suo viaggio a ovest degli Stati Uniti, ribattezzato American West e pubblicato alla stregua di un diario di viaggio sull’account Instagram del New Yorker e diventato poi un libro. Nel 2020 ha messo in piedi alcune note a proposito del primo periodo di reclusione in Italia, giorno per giorno, intitolato Cronache dalla zona rossa, concepita dapprima come rubrica sul Washington Post e infine come volume a tiratura limitata edito da Tapirulan.
I suoi dipinti contengono un elemento curioso, di fascinazione: sembrano davvero una riproduzione materica del disegno digitale. Si serve del nastro adesivo trasparente per tracciare i confini, le forme, attraverso il pennello li riempie poi di colore, stende la tinta. Bando alla creatività caotica, il lavoro di Ponzi è certosino, pratico, preciso. Le sue vedute, i suoi personaggi provengono anch’essi da un universo che risente o risalta del contagio, dell’esposizione alle tecnologie, alla collusione con i panorami infantili legati alla produzione televisiva, animata, in un certo senso anche allo sguardo statunitense, e precisamente newyorchese: basta pensare a Hopper, ai suoi scorci di vita metropolitana, fossilizzati, immobili, racchiusi per sempre in una posa, in un dettaglio. «Facendo qualcosa di fisico, sporcandomi le mani, prendendomi il rischio di commettere errori che non possono essere eliminati».
Ecco, è così che inevitabilmente un artista conduce la propria missione, mette a fuoco il suo destino: portando la sua opera a un punto di rottura, di fragilità, in cui non è più in grado di sostenersi con gli strumenti, con i meccanismi di difesa, con le mosse a cui era abituato e che aveva fatto sue. Altrettanto, forse, si comportavano tutti coloro che, in passato, interrogavano e sottoponevano il proprio talento alle onde della folla, alle correnti del pubblico, agli urti del confronto con il mondo, qualunque esso fosse. Il rischio di frangersi era alto. Ma se riuscivano a sopravvivere, quanti tesori e quante scoperte portavano con sé al ritorno!