«Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta». La prosopopea dell’orazione funebre per Pierpaolo Pasolini, pronunciata da Alberto Moravia, potrebbe essere adattata, magari con un po’ di understatement piemontese – Esageruma nen (Non esageriamo) direbbe Norberto Bobbio – anche alla figura di Gianni Vattimo, che è stato prima di tutto un filosofo, anche se la sconclusionata esorbitanza e dissipazione della sua figura pubblica in un polemismo fanatico l’aveva ultimamente degradato a figurante del grande circo dell’estremismo senile, verso cui l’accademia italiana è tanto incline quanto la pubblicistica para-accademica riverente.
Peraltro, diversamente da Pasolini, con cui condivideva intellettualmente poco, ma esistenzialmente tanto – un’omosessualità sofferta, un’ascendenza cattolica profonda e irregolare, un comunismo religioso e immaginario – Vattimo è stato un pessimo impresario di se stesso e le sue ultime mattane politiche sono apparse di una mediocrità patetica, dove invece agli scandali pasoliniani, compreso quello della morte, è stata sempre riconosciuta un’indiscutibile grandezza tragica.
Così il “soggettivo” di Pasolini ha finito per illuminare la forza e redimere la debolezza del suo “oggettivo” e per farne un poeta più grande di quello che fu e un protagonista indiscutibile e venerato anche oltre i confini della sua parte politico-intellettuale. In Vattimo, al contrario, le fragilità psicologiche e personali – mai nascoste e alla fine esibite con disperato e autolesionistico narcisismo – hanno fatto velo alla grandezza assoluta della sua costruzione teorica e delle sue originali invenzioni e l’hanno reso una presenza sempre più imbarazzante anche tra gli intellettuali engagé, che filosoficamente non avrebbero neppure potuto spolverargli la scrivania.
L’impresa intellettuale di Vattimo è stata di avere conteso la storia del pensiero post-metafisico a un destino di lugubre infelicità e di avere sprigionato il potenziale liberatorio e umanistico della (auto)dissoluzione di tutte le mitologie “fondazioniste”, che avevano ordinato per secoli la vita e la storia umana, restituita infine non solo al peso, ma anche all’avventura di una libertà senza garanzie e di una contingenza senza risarcimenti ultramondani.
Per dirla in modo molto sommario, Vattimo ha spiegato che Heidegger e Nietzsche, dal punto di vista intellettuale e politico, non portano irrimediabilmente a un nichilismo “nero” nutrito di fantasie superomistiche e di claustrofilie reazionarie, bensì riconsegnano la storia umana a se stessa e alla responsabilità di verità relative, ma non irrazionali, e di un universalismo radicato nella coscienza della comune e universale debolezza umana e della parzialità di ogni persuasione e conoscenza.
Mentre le filosofie perbene si limitavano a tenere Heidegger e Nietzsche a distanza di sicurezza, temendone il contagio, Vattimo li ha presi coraggiosamente sul serio, non ha eluso né rimosso il problema che rappresentavano e soprattutto ha ridiscusso criticamente le conseguenze, tutt’altro che obbligate, del loro pensiero, ammonendo piuttosto sul rischio costituito da quelle idolatrie razionalistiche, scientistiche o deterministiche, che la contemporaneità offre frequentemente come surrogati economici delle vecchie e tramontate certezze metafisiche.
Vattimo col suo “pensiero debole”, ma tutt’altro che rinunciatario, ha spremuto dai cattivi maestri il succo di un nichilismo filosofico buono, così come buono, anche se segnato da una ben diversa enfasi tragica, era stato il nichilismo religioso di Sergio Quinzio, sospeso tra l’angoscia e la tenerezza per la sconfitta di Dio. Chiarissimo, nell’uno e nell’altro, era il riferimento al pensiero di Luigi Pareyson.
Il Vattimo filosofo è stato molto meglio e molto più grande del personaggio che era finito per diventare, con le sue geremiadi clamorose, grottesche e cattocomunisticamente anacronistiche, contro Israele, l’America e contro l’Occidente liberale, del cui benedetto relativismo aveva invece paradossalmente scoperto una delle radici filosofiche più convincenti e imprevedibili.