E se quello di chi di mestiere scrive fosse un mestiere inutile quanto quello di chi ferra i cavalli, di chi noleggia videocassette, di chi infila stecche di balena nei corsetti, di chi interpreta i fondi di caffè, dei meteorologi, degli economisti?
Noialtri che di mestiere scriviamo siamo disposti a tutto pur di non lasciare che vi accorgiate di quanto siamo ridondanti, di quanto la realtà dimostri ogni giorno che di noi non c’è bisogno. Riusciamo persino, senza metterci a ridere, a dire che è un lavoro faticoso.
«In generale, possiamo scrivere quanto vogliamo finché non abbiamo più o meno quarant’anni, finché la giovinezza è dalla nostra parte. Dopodiché, è comune non avere altrettante energie, e la scrittura ne soffre». L’ha twittato (o come si dice ora) tre giorni fa un account a nome di Murakami, e io non so neanche se sia il suo: se un romanziere settantaquattrenne stia tentando di convincerci che scrivere romanzi sia come fare il soldato o il camionista o il lavatore di scale, un’attività che ti richiede d’essere nel pieno delle forze; o se invece sia un’imitazione: la scrittura è diventata un lavoro talmente inutile che figuriamoci cosa può essere diventato lo sforzo di leggere impegnandosi a distinguere la prosa vera da quella falsa.
Naturalmente il primo colpo alla credibilità di chi lavora con le parole l’hanno assestato i telefoni con la telecamera. Se ascoltiamo qualunque cretino che improvvisa parole sgrammaticate parlando dentro al telefono, che senso ha che ci siano professionisti della prosa che scrivono testi per professionisti dell’eloquio, con costo maggiore e resa minore?
Non ho di recente visto niente, nel mondo dello spettacolo italiano, all’altezza dell’Instagram di Barbara D’Urso, che è a Londra con lo spirito con cui io nell’estate del 1987 ero a Canterbury in vacanza studio: proprio come me allora, è convinta d’essere fluent; proprio come me allora, strabilia per il cibo locale; proprio come me allora, si produce in certi the cat is under the table che sono assai più irresistibili di qualunque testo le abbiano mai scritto i suoi autori televisivi.
Adesso, come sappiamo fin troppo, negli Stati Uniti d’America, un paese che ha coi diritti dei lavoratori la familiarità che noialtri abbiamo col baseball, c’è uno sciopero di chi scrive per il mondo dello spettacolo. Il che significa chi scrive per il cinema ma pure chi scrive per le Barbara D’Urso di lì. Proprio come accade agli italiani che si fingono patiti di baseball, la goffaggine degli americani che scioperano è uno spettacolo tra il ridicolo e il patetico.
La più recente vittoria percepita dagli scioperanti è presto riassumibile. Due talk-show – due programmi fatti di conversazioni: per definizione non, si direbbe in gergo, «copionabili» – hanno annunciato che, nonostante lo sciopero non fosse concluso, avrebbero ripreso le trasmissioni senza avvalersi di autori.
Indignazione e urla al crumiraggio, giacché, appunto, sono americani: non sanno come funzioni uno sciopero. Secondo loro è crumiraggio se scioperano i truccatori e tu vai in onda struccata, mica se truccatori non scioperanti prendono il posto degli scioperanti approfittandosene.
I due talk-show sono quanto di più diverso per molti aspetti, ma in particolare per la conduzione. Uno è di Drew Barrymore, già bambina di “E.T.” e personaggio talmente benvoluto da non essere riuscita a divenire controversa neanche raccontando la sua infanzia drogata, neanche divorziando dopo tre quarti d’ora dalle nozze, neanche essendo amica di Courtney Love: tutti, sempre, hanno voluto bene a Drew. Finché non ha detto che sarebbe tornata in onda, e apriti cielo.
L’altro è di Bill Maher, comico stronzissimo che continua a trasmettere sulla più presentabile delle reti, Hbo, nonostante assommi in sé tutte le impresentabilità sociali di questo decennio: è scettico sui vaccini, insofferente alla suscettibilità, in generale gli fa schifo l’ortodossia (il che è stato sempre l’unico modo di fare il comico, poi dev’essere successo qualcosa negli ultimi anni, vai a sapere cosa).
Maher ha detto che avrebbe tenuto solo la parte di conversazione del programma, eliminando i blocchi bisognosi di autori quali gli sketch e il monologo (fingendo magnanimamente di non essere in grado di scriversi un monologo da solo). Barrymore nel suo programma fa Barrymore che chiacchiera con altre celebrità e gente comune: fa sé stessa sestessamente, come potrebbe fare su Instagram. Sono diversissimi, ma l’indignazione dell’internet li ha fatti egualmente recedere dal proposito di riprendere i loro programmi.
Poiché il più gran rimosso del presente è che la reputazione non esiste più, ogni giorno vediamo scandali dimenticati in tre quarti d’ora, criminali dei cui crimini nessuno si ricorda, carriere che ci giuravano finite e tornano come niente fosse, moralizzatori con fedine morali ben più zozze di coloro cui fanno la morale – per ragioni che ci vorrebbero psicanalisti per spiegare, l’umanità che vive in una perpetua sospensione del concetto di reputazione è però terrorizzata dalle ipotesi di danno reputazionale.
Ciò che motivava Maher e Barrymore a voler tornare era un dettaglio ovvio. Se, poiché scioperano coloro che scrivono, intere produzioni vengono fermate, a restare senza emolumenti – in un paese in cui esistono i contratti per fare qualcosa per il tempo che serve, non gli stipendi senza scopo a tempo indeterminato – sono i truccatori, i parrucchieri, gli elettricisti, i facchini, gli scenografi, i costumisti. Tutti quelli che i diritti d’autore quando quel programma va in replica – ciò per cui stanno scioperando gli autori americani adesso – non li prendono comunque.
La risposta degli indignati è: Maher e Barrymore sono ricchi, le squadre dei programmi tenuti fermi sono in grado di pagarle. La risposta di un paese che non sa cosa sia uno sciopero né cosa sia uno statuto dei lavoratori è: chi ha bisogno d’uno stato sociale, quando esiste l’elemosina?
I ricchi conduttori possono generosamente mantenere gli elettricisti di scena, così come le ricche multinazionali possono generosamente pagare la copertura sanitaria ai lavoratori, così come il ricco cliente di ristorante può lasciare una ricca mancia al povero cameriere cui il ricco ristoratore mica può dare uno stipendio con cui vivere: lo stipendio è una roba da comunisti, negli Stati Uniti si preferisce la carità. Un paese che, non avendo fatto in tempo ad avere il feudalesimo, lo recupera ora.
Mentre non vanno in onda due programmi che nessuno avrebbe avuto bisogno di scrivere e che quindi sarebbero potuti andare in onda comunque, su Spotify c’è “Strike Force Five”. È un podcast – il decennio in cui, se hai un quarto d’ora libero, fai un podcast – fatto da Stephen Colbert, Jimmy Fallon, Jimmy Kimmel, Seth Meyers e John Oliver. Cioè: i cinque conduttori dei cinque talk-show di tarda sera, momentaneamente a riposo giacché c’è lo sciopero.
Il podcast serve a raccogliere soldi per pagare il personale dei cinque programmi che non sta lavorando per colpa dello sciopero degli autori (una categoria professionale che, oltre a essere ridondante, dopo questa vicenda sarà popolare quanto i medici dopo la pandemia).
Ma, si chiederanno i miei piccoli lettori, quali soldi, considerato che nessuno ha ancora capito come fare i soldi coi podcast? Quelli di due sponsor eccezionalmente intervenuti a coprire di danaro un prodotto, come gesto simbolico. Due aziende di alcolici. Una di proprietà di George Clooney, una di Ryan Reynolds. Due attori multimilionari che fanno ciò che il capitalismo americano prevede facciano: la carità alle maestranze.
Il podcast è abbastanza divertente, con gli aneddoti di quando Colbert trasmise da una sede televisiva di provincia per dodici spettatori, o di quella volta che Fallon ebbe come primo ospite De Niro, ignaro che quello fosse famoso per rispondere a monosillabi. Il podcast è abbastanza divertente, e rende plasticamente evidente che, per dire delle cose brillanti in un microfono, non servono autori. Persino un maniscalco è più utile, e se sciopera e decidi d’andare a piedi neppure ti considera un crumiro.