Nelle foto aeree fatte alla città di Derna dopo l’inondazione che ha devastato la Libia tra domenica 10 e lunedì 11 settembre 2023, si vede il mar Mediterraneo: il confine nord di un Paese politicamente instabile e dal clima generalmente arido.
Sono anni che da quelle sponde, nella regione della Cirenaica, migliaia di persone tentano di raggiungere l’Europa attraverso una delle rotte migratorie più rischiose. Quando la conta dei morti per l’alluvione sarà finita, in Libia resteranno gli sfollati. Per molte di queste persone, gli incentivi a partire e a unirsi ai flussi da record di queste settimane saranno fortissimi.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, le persone in fuga da disastri ambientali hanno già superato quelli che scappano dai conflitti. «Si leggono tante stime su quanti saranno i migranti climatici nel 2050, ma i numeri sono molto dibattuti perché al momento i rifugiati per il clima non esistono giuridicamente e quindi diventa difficile fare delle statistiche», precisa a Linkiesta Livia Ortensi, professoressa di demografia all’Università di Bologna e responsabile del settore statistica della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità).
Molto più chiaro, invece, è verso dove si spostano le persone che scappano delle condizioni climatiche avverse. «La maggior parte dei flussi avviene all’interno del Paese di partenza o in Stati confinanti», dice Ortensi. Per chi si trova in nord Africa, però, il confine – almeno quello della speranza – ha l’odore del mar Mediterraneo. Per chi parte da Libia, Tunisia, Marocco, le terre confinanti sono Lampedusa, Cutro, Malta.
Non si sa ancora se Daniel, il ciclone mediterraneo che ha colpito prima Grecia, Bulgaria e Turchia, e poi Libia, sia stato causato dalla crisi climatica. Il punto, comunque, non è attribuire ogni evento all’emergenza climatica, ma capire che la crisi del clima dovuta all’uomo è il contesto di tutto quello che succede, compreso le migrazioni. Adattamento al cambiamento climatico significa anche riscrivere le norme sui flussi di persone.
Come spiega Ennio Codini, professore di diritto all’Università Cattolica e responsabile del settore legislazione della Fondazione Ismu, il cambiamento climatico è un moltiplicatore delle vulnerabilità dei Paesi: «In molti casi – afferma Codini – la figura del migrante economico coincide con quella del migrante ambientale». Se questi migranti, economici e climatici, non fuggono anche da un conflitto o da persecuzione politica, non hanno però diritto alla protezione internazionale: asilo politico o protezione sussidiaria collettiva (quella che l’Unione europea ha previsto per gli ucraini in fuga dalla guerra).
Una delle possibilità per rendere di fatto l’ambiente una causa di persecuzione, alla pari di altre oppressioni, è il permesso di soggiorno per calamità naturali. I Paesi dell’Unione europea possono adottare misure speciali per concedere queste forme di protezione temporanea.
In Italia l’articolo di riferimento è stato modificato con il decreto Cutro del 2023 ed è il 20 bis del Testo unico sull’immigrazione. La norma nella versione precedente, quella del 2020, prevedeva un permesso di soggiorno speciale in caso di un generico «danno grave». L’intento era consentire protezione e accoglienza a chiunque provenisse da un contesto socio-ambientale talmente compromesso da sottrarre all’individuo i diritti umani fondamentali.
La giurista Vitalba Azzollini, intervistata da Linkiesta, spiega che: «Il decreto Cutro ha stabilito che il danno grave deve strettamente essere una calamità naturale». I disastri ambientali, però non sono solo eventi estremi a breve termine, come le alluvioni o i cicloni. Sono anche fenomeni che riguardano intervalli di tempo più ampi, siccità o innalzamento dei mari. «Per queste situazioni possiamo affidarci e sperare in una interpretazione delle direttive – afferma Azzollini, che poi aggiunge – ogni condizione che lede la dignità umana dovrebbe essere considerata un danno».
La legge attuale stabilisce che il permesso di soggiorno per calamità naturali possa essere dato solo alle persone straniere già presenti in Italia, che quindi non possono fare ritorno nel proprio Paese. Questa norma rende impossibile per un migrante climatico – si pensi a una persona sfollata che parte dalla Libia – raggiungere l’Italia in maniera regolare perché non può ottenere nessun permesso prima di essere su suolo italiano.
Altrettanto impossibile è entrare in Italia con il canale legale stabilito dal decreto flussi, che concede il visto a chi ha già un contratto di lavoro in Italia prima di esserci arrivato – «una farsa», secondo Azzollini e Codini, perché nessuno, o quasi, dei datori che potrebbero offrire lavoro alla maggior parte dei migranti assume prima che queste persone si trovino in Italia.
Il professore spiega che per evitare che molti sfollati in Libia affrontino viaggi disumani verso l’Europa, una soluzione legale sarebbe quella del corridoio umanitario, una misura eccezionale che può essere attuata con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri: «Ma dubito che ci sia la volontà politica di farlo, e poi questi canali sono rivoletti rispetto alla portata dei futuri flussi migratori».
Dopo la tragedia avvenuta Libia e le continue partenze dalla Tunisia, Codini e Azzollini concordano sul fatto che servirebbe un nuovo modo di gestire le migrazioni, nei Paesi di partenza e in quelli di arrivo. Un sistema unico europeo, strumenti legislativi idonei per fare entrare i migranti – climatici e non – con un visto regolare. «Si discute molto di questa possibilità – afferma Codini – ma sia a Roma che a Bruxelles, l’interesse è non deludere gli elettori, anche in vista delle elezioni europee del 2024».